Andreina Robotti. La vita in un quadro

Mostra

Dal 24 novembre nelle sale della galleria civica «Giuseppe Craffonara» una mostra curata dal centro culturale «La firma» e dal titolo «La vita in un quadro» rende omaggio all'artista che ha trasformato in arte le lotte femministe: Andreina Robotti (1913-1996). L'esposizione è inaugurata sabato 24 novembre alle ore 18; quindi prosegue fino al 9 dicembre tutti i giorni dalle 10.30 alle 14 e dalle 15 alle 18.30 con ingresso libero.

Nata nel 1913 ad Iseo, toscana per vocazione, veronese d'adozione, Andreina Robotti è stata un'artista che ha avuto il consenso della critica più attenta (da Buzzati a Marchiori, da Mozzambani a Mussa, a Neri Pozza) e negli anni roventi dell'azione politica femminista, ha stretto un sodalizio con figure come Gina Pane, Ketty La Rocca, Marina Abramovich, Rebecca Horn. Con il nome di Andreina Antonioli, ha passato l’infanzia e la gioventù a Siena, dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti e ha imparato a conoscere Duccio, Simone Martini, Lorenzetti e dove ha conosciuto e sposato Pietro Robotti diventando per tutti Andreina Robotti.

«Appassionata di uno stile gotico e al contempo di uno spirito coloristico – scrive il critico d'arte Luigi Meneghelli – amante di un disegno nitido, primitivo, quasi interno alla forma stessa, e insieme di uno sciogliersi della linea in colori fauves con pennellate liquide, ariose. Il mondo figurativo di Andreina Robotti, tra gli anni Cinquanta e Sessanta sembra dividersi in due distinte categorie espressive: da una parte, i modi linguistici di ascendenza medievale, in cui fissa sul bianco dello spazio un accalcarsi di figure fatte di inchiostro che risultano invariabilmente senza espressione, come retrocedessero in se stesse, mostrandosi spesso come dei semplici stampini, dei ricalchi, delle sagome schematiche iterate: veri “omini” in cui il margine del gioco pittorico si fa esiguo, frettoloso, ridotto all'anonimia dello stereotipo. Dall'altra forme dirompenti, che conoscono tutta la fermentazione incantata e ironica di una materia fluida come l'acquarello con la sua capacità di sfaldare l'immagine in tanti piccoli segni. Ma se ci si fa caso, anche in questo versante operativo di Andreina Robotti le figure non hanno identità precisa, sembrano appena abbozzate, attraverso una tecnica scarna e semplificata che arriva confonderle con la natura stessa. Così, se l'operazione della stampigliatura crea l'idea della folla, del volto plurimo, dell'uomo massa, anche gli acquarelli finiscono per disegnare un essere indistinto, la presenza incompiuta, irrealizzata, o ancora solo in potenza. Con gli anni la composizione si fa sempre più espansa e le stampigliature si accalcano fino agli orli del foglio. Si tratta di un'umanità dagli occhi sbarrati, che dà l'idea di fare muro, mucchio, moltitudine confusa: un'umanità che, come in un corteo, alza cartelli di protesta con su scritto “Non vogliamo più sultani”».

«Intorno agli anni Ottanta – prosegue il critico – Andreina fa ritorno alle sue nature, ai suoi boschi: recupera alla superficie, i limiti tradizionali della pittura. Anche se bisogna dire che la sua operatività mantiene sempre qualcosa di performativo. Lei non si mette semplicemente di fronte al soggetto, ma si distende accanto, ne coglie gli odori, i sapori, il variare della luce. E intanto i quadri si fanno sempre più grandi, ma non perché si dilata il campo del visibile, ma perché si allarga la riflessione su ciò che l'artista vede».

Andreina Robotti è morta a Verona il 31 dicembre 1996.