Annamaria Targher. Donna che cammina

Mostra

Annamaria Targher
Donna che cammina

Donna che cammina fa suo il titolo di un’opera di Alberto Giacometti: mette a fuoco, in particolare, il piede che avanza di una figura protagonista e vittima di un bombardamento.
L’opzione per un tipo di espressione che contempli l’essere umano, si è delineata nella produzione di Annamaria Targher per il tramite del disegno: come per Giacometti, le figure di Bombardamento sembrano diventare somiglianti solo se lunghe e sottili.
A quest’artista si affianca l’ammirazione per A. R. Penck: sia per i suoi segni che sanno così tanto di rupestre, sia nella resa dei suoi “omini sintetici” (Angela Vettese). Ne è un’eco puntuale Simil Penck, dove il “piccolo uomo che passa da una parte all'altra di un canyon lungo una rupe”, diventa un’occasione per uno scandaglio autobiografico e un sondaggio sul vuoto esistenziale e tutt’attorno.
Se il lavoro su carta in generale è delineato da una velocità narrativa e da un’aderenza al dato reale rinserrato in una dimensione accumulativa, la trasposizione su tela del tema del bombardamento da luce a criteri ed intenti nuovi; sembra lasciar posto cioè (usando le parole di Giacometti) a quegli stessi corpi che “mi attiravano nella realtà” ma che al contempo sono anche delle “forme astratte”. Un’oscillazione che è la traduzione di un intento dell’artista che ha rifiutato la “poetica del negativo”, anche se di questa ne ha avuto piena coscienza: un tentativo, come antidoto, di riscatto razionale, di affermazione della vita. Pulsante, come i corpi ancora forti, statuari ed alteri (così poco probabili dunque) che sembrano in tal modo sottrarsi, per difendersi, in Bombardamento III.
Il doppio movimento, tra un espressionismo realistico (così vicino all’essere umano o alle sue metafore - proiezioni animali) e l’attrazione per la fuga astratta, costituisce il battistrada della donna – artista che cammina. Un calpestio, un trepestio d’insofferenza e d’urgenza caratteriali incessanti (anche due sbandamenti) nei confronti delle possibilità di abbracciare il mondo o di rifiutarlo, per il tramite della prassi creativa.
L’altra sezione della mostra verte infatti, sull’adesione alla pittura “retinica” (per usare le parole di Marcel Duchamp), sulla supremazia della “pura sensibilità plastica” (Casimir Malevic) che sembrano assecondare entrambe così bene le parole di Vassily Kandinsky. “Quanto più il mondo diventa spaventoso, […] tanto più l’arte diventa astratta”. Rifugge, per calarsi nella ripetizione solipsistica del gesto, vuoto, con il pericolo che tale ripetizione porti inevitabilmente con sé anche “una degradazione immediata, una ricaduta nel gusto” (Octavio Paz parafrasando Duchamp).
Dmitrij S. Lichačëv, nell’analisi dell’arte russa, pone l’accento sulla vastità di quella terra, e sull’impossibilità quindi, per gli suoi abitanti, di comprenderla. “Così nacque in Russia quell’amore per il luccichio dell’oro” (l’icona stessa può essere definita come “pensiero speculativo espresso nei colori e nelle forme”), capace di rendersi visibile da lontano. Similmente è per Oro: un tentativo di ancoraggio per il tramite di un espediente tecnico, il luccichio appunto.

L’unico punto di congiunzione, tappa o sosta nell’andirivieni, sembra essere il collage: usato in realtà per sostantivare dei volumi nel caso della verosimiglianza con dei corpi, o nel tentativo di sottovalutare, tenendogli testa in un confronto serrato, il gesto, la pennellata, dal momento in cui ne emula i contorni, la superficie e la sostanza.
In Oro, questo gioco di responsabilità semantica diviene contrappunto, mimesis tra la calligrafia cieca ed allucinata dell’artista, e il riempimento di forme geometriche sagomate, in cui risulta difficile discernere volontà e servaggio ad una tecnica vicina alla manualità dello stencil. A tal proposito fanno luce le parole di Robert Rauschenberg “mi piace pensare all'artista come una sorta di altro materiale che interviene nel dipinto" senza alcuna pretesa gerarchica.
Le due sezioni della mostra invitano a cercare nei meccanismi del transito, del percorso, forse perché quello che importa è l’eco del trambusto interiore: è stata recentemente Chaterine Millet che, rispetto all’irrazionalità dell’arte e alla difficoltà di comprenderne i meccanismi anche da parte dell’autore stesso, ha rivendicato la libertà dell’artista rispetto al valore di qualsiasi logica. “Un’artista può con uno stesso gesto negare e imporre quell’oggetto che è l’opera d’arte. E’un paradosso ma bisogna accettarlo. Dopotutto le arti visive non sono fatte per confortare la ragione. Venire a patti con questo paradosso aiuta moltissimo ad apprezzare l’arte della nostra epoca.”