Annamaria Targher. Ninfee 2.0

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La ninfea non vive senz’acqua: la stessa sua altezza è subordinata alla profondità del bacino idrico che l’ accoglie. L’apparato radicale la ancora al fondale.
Nella prima serie Ninfee il confronto serrato del fiore con lo stagno e il canneto pare tutto. La serie esordisce, infatti, con la preponderanza del contesto; è in tal modo che questo atteggiamento si assesta e conferma in Ninfee VI.
2.0 è, per il Web, un termine utilizzato per indicare genericamente uno stato di evoluzione rispetto alla condizione precedente. Per esteso, si fa ricorso a questa numerazione in presenza di un cambio che si reputa paradigmatico.

Con la serie Ninfee 2.0, infatti, il fiore prende il sopravvento sullo sfondo, sull’habitat: una sovrabbondanza, anche numerica, che forse tradisce la reale perdita di senso del fiore che sembra affidare così la sua identità all’iterazione. Il fiore, ora, non esce più da un pantano, dallo stagno, non ascende nemmeno più dal cielo in virtù di un metafisico riscatto (voluto dall’artista o conquistato dalla pura forma e varietà del fiore?), ma crea un primo piano indipendente, giustapposto. Sempre più, due settori distinti all’interno di un identico spazio: uno pare la voce dell’apprensione e della paura, l’altro di un’irrefrenabile esuberanza a coprire il vuoto, dietro.
Così, ora, il fiore non esordisce ma straripa: sempre più grande, a sopperire il proprio affacciarsi sul nulla.
O è il fiore stesso il nulla rispetto a ciò che si è andato perdendo?
Un flatus voci?