Beat! [... ma che colpa abbiamo noi]

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«Oggi qui, domani là,
io vado e vivo così,
oggi qui
domani dove sarò?»
Patty Pravo, «Qui e là»)

«Nei primi anni Sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole...»: così Pier Paolo Pasolini, sul "Corriere della Sera", ricordava la sparizione dei misteriosi animaletti fosforescenti che spuntavano ad intermittenza nei fossi delle nostre campagne, cogliendovi il segnale impercettibile quanto indiscusso di una civiltà giunta al tramonto. Con una certa nostalgia, ovviamente, ma anche con un'implicita dichiarazione di resistenza ad una versione del progresso caratterizzata da tratti ingenerosi e disumani.
Armati dello stesso duplice atteggiamento, abbiamo cercato di metterci di fronte al fenomeno beat, che - pur avendo finito per caratterizzare solo un breve tragitto dei sixties, in senso stretto - ci pare abbia posto le basi per una serie di novità destinate a segnare prepotentemente la stagione successiva, e di giungere, pur se un po' sbrindellate, fino a noi, a questi primi vagiti dei ventunesimo secolo. Da molti punti di vista, sul piano culturale, politico, ecclesiale, di costume. Spesso in maniera confusa, discussa e discutibile come ogni cosa "viva", e palpitante come il ritmo di quella musica immancabilmente "in battere" da cui ha tratto origine e desunto il nome. Di quei "Beatles" che ne dovevano siglare eponimamente il passaggio. Di quei verbo inglese («to beat, beat, beaten») che ne rappresentava persino nel suono la frustata, talvolta timida talaltra impetuosa, contro i benpensanti borghesi, i "matusa" o più semplicemente contro quanti - per loro sfortuna - si trovavano in quella stagione ad avere oltrepassato gli "anta".
Ebbene sì, ci corre l'obbligo di ammetterlo senza falsi pudori, dovendo parlare anche a nome dei gruppetto che si è innamorato di questa operazione: la spinta iniziale ce l'ha fornita un pizzico di nostalgia per un tempo ormai distante cronologicamente, quando eravamo tutti più piccoli o più giovani o ancora di là da venire al mondo, e per un Paese - il nostro - che si stava ancora leccando le ferite di una guerra dolorosissima e rimboccando le maniche verso una modernità difficile, contraddittoria, ma anche, vista coi cannocchiale di quegli anni, assolutamente appetibile.
Ora, ora che sappiamo bene che le "conquiste dei progresso" si pagano duramente, che sentiamo il bisogno di tirare il freno per rispetto dei posteri e che abbiamo appreso che non ogni ciambella riesce coi buco, proviamo però un po' d'invidia per quegli italiani massificati, ingenui, sorridenti, speranzosi che eravamo allora, ancora capaci di plateali entusiasmi di fronte al Carosello quale rito di passaggio dal giorno alla notte e al Cantagiro quale rito di passaggio dalla giovinezza verso l'età adulta. Tutti in coda sulla Seicento, verso le prime vacanze di rito. Tutti a consumare i primi "Oscar", dalla prima pagina alla fine. Tutti ad entusiasmarci per il primo calcio tifato davanti alla tivù dove emergevano giocatori come George Best, caschetto alla Beaties, e il nostro indimenticato Gigi Meroni, il "capellone" della squadra dei Torino.

Ma c'è qualcosa di più. Ci muove, oltre alla voglia che nulla vada smarrito dei frammenti di un passato percepito nel complesso come buono, la consapevolezza che, per penetrare nel profondo il trentennio seguente, il ruolo della cultura beat, con la sua spinta verso la rottura dei codici comportamentali, linguistici ed etici tradizionali, non può essere eluso. Che l'ispirazione popolare, l'vversione ad ogni tipo di regola e il forte affiato internazionalista di tale movimento sono elementi che vanno presi sul serio, e che - almeno in parte - hanno attecchito, anche se oggi si definiscono "liberismo", e "globalizzazione" o "antiliberismo" e "no-giobal", ma in fondo fa lo stesso). E soprattutto, che le ansie, le tensioni, i sogni cantati o singhiozzati qui da noi dai Rokes e dai Giganti, dall'Equipe 84 e da una giovanissima Patty Pravo, ma anche (perché no?) dai Nomadi di Augusto e dal Guccini di Dio è morto e dintorni sono ancora adesso pezzetti di un puzzle indispensabile a carpire qualche traccia, più o meno carsica, dei Sessantotto e delle lotte sindacali, dei rinnovamento conciliare e dei dissenso cattolico, dell'invenzione della categoria sociologica dei "giovani" e dei nuovi stili di vita, della liberazione sessuale e dell'emancipazione femminile.
Per questo, proprio oggi - oggi che sembra sia diventato uno sport nazionale il tiro al piccione contro il presunto "mito" degli anni Sessanta, e che riviste e volumi e programmi televisivi fanno a gara per smontarlo, demistificarlo e ridurlo ad una confusa poltiglia (se non al maledetto brodo ideale che avrebbe coltivato i semi malati dell'ideologizzazione della realtà e dei terrorismo successivo) - ci è parso utile "rivisitare" un passaggio nodale come l'epoca dei beat, almeno quello in salsa italiana. Un'epoca che sa ancora parlarci, se la sappiamo leggere con attenzione critica e - certo - senza mitologie a basso costo, ma altresì senza paraocchi e senza banalizzazioni sin troppo facili.
Ecco dunque una verosimile chiave di lettura delle pagine che seguono, in cui si discute con competenza e passione non solo di musica, ma anche di società, moda, impegno politico, culture varie. In cui si passano in rassegna copertine di "dischi-non-ancora-CD", ma anche oggetti di consumo attualmente spariti dei tutto dalla nostra quotidianità. In cui alcune immagini ci raccontano esemplarmente di come la cronaca di allora sia divenuta a pieno titolo storia per quanti hanno compiuto vent'anni, o suppergiù, nel Duemila.
Forti di un simile bagaglio, ora ci troviamo qui, senza alcuna vergogna e anzi con un discreto orgoglio, ad immaginare la presenza tuttora vitale, pur se non siamo riusciti a catturarle per una nostra intrinseca incapacità, di una miriade di lucciole. Rigorosamente beat, e miracolosamente rinate a regalarci per un attimo l'illusione che il tempo, da allora, non sia trascorso... o almeno non dei tutto, e non del tutto invano.

Brunetto Salvarani, Assessore Politiche culturali, Comune di Carpi
Gianluigi Bozza, Dirigente Servizio Attività Culturali Provincia Autonoma di Trento


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