Diango Hernandez. Power Pencil

Mostra

Mostra personale dell’artista cubano Diango Hernandez (Biennale di Venezia 2005 -Biennale di Sydney 2006 - Biennale di San Paolo 2006) nella quale verranno presentati un’ampia gamma di nuovi lavori: installazioni, sculture e disegni

Dodici pali della luce reperiti nella Val Primiero: vecchi pali che danno l’idea di reliquie di un passato andato distrutto e annientato. Hanno ancora i loro isolatori e i loro fili elettrici, ma tutti attorcigliati, quasi a testimoniare che siamo davanti a dei residui usurati, a dei materiali di scarto, a delle semplici spoglie oggettuali. Diego Hernandez li dissemina con apparente distacco nello spazio della galleria, ben attento a non farne testimonianze storiche, rovine preziose, rottami da custodire gelosamente. Egli invece attua sui loro resti una sottile operazione di contraffazione, anzi una letterale alterazione di visione e di senso, trasformandoli in spropositate matite da capomastro con tanto di punta dipinta di nero.

Che ci troviamo davanti ad una metamorfosi è evidente: si tratta di una domanda posta all’oggetto (anche se finito, morto), all’instabilità delle classificazioni, allo scambio delle parti o dei ruoli. Solo che qui è questione di una metamorfosi in atto, di un cambiamento in corso. Non è che i pali della luce perdano la loro identificabilità, soltanto che mettono il loro essere a disposizione di un’altra esistenza, di un’altra ipotetica funzionalità. E unicamente l’immaginario infantile è capace di inventarsi una realtà doppia, fantastica: per un bambino una scatola può diventare un treno, tre o quattro mattoni diventano una casa, una scopa diventa un cavallo o un aereo. Attraverso il gioco simbolico egli trasforma la realtà in apparenza, e viceversa. E lo stesso Diango Hernandez una volta ha detto: “Io cerco una via di fuga da questo mondo… Il vero potere è la possibilità di costruir(si) il proprio universo”.

Quindi l’installazione (dal titolo Power Pencil) non può essere accostata tout court al gesto duchampiano che prevede lo spostamento dell’oggetto dal contesto, per creare su di esso “nuovi pensieri” e nomi nuovi: in fondo l’oggetto rimane sempre uguale a se stesso, dentro “la legge fondamentale dell’identità”; né può essere avvicinato all’estetica del “come se” di Magritte, vero cacciatore di relazioni defunte, di incontri apparentemente fortuiti: egli intendeva mettere in risalto l’inganno delle immagini, evidenziare il cortocircuito di edifici che ogni rappresentazione contiene in sé. Quello di Duchamp e di Magritte era un discorso concettuale, quello di Hernandez è ancora una volta un discorso politico, quello dei primi due doveva produrre delle investigazioni linguistiche, quello del secondo sondare le strategie del potere.