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Teatro

Trento a Teatro
Stagione di Prosa | Altri Percorsi

Gli Ipocriti
Ecuba
di Euripide
adattamento Carlo Cerciello
Con Isa Danieli
e con Franco Acampora e Fortunato Cerlino, Ciro Damiano, Niko Mucci, Imma Villa, Raffaele Ausiello, Caterina Pontrandolfo, Autilia Ranieri, Daniela Vitale
scene Roberto Crea
costumi Daniela Ciancio
musiche Paolo Coletta
luci Cesare Accetta
regia Carlo Cerciello

Ad Euripide si deve la creazione di una serie di grandi figure femminili, problematiche ed inquietanti, in cui la sensibilità tormentata, a volte torbida, non può e non sa trovare nelle facoltà razionali, soluzioni equilibratrici La nostra messa in scena, curata da Carlo Cerciello, vedrà Isa Danieli vestire i panni di un’Ecuba moderna, di una donna che percorre un impervio cammino; prigioniera affranta che contempla disarmata le proprie sciagure, abile oratrice che mette alle corde il tracotante nemico, sovrana che reindossa una maschera di dignità.
Combatterà la violenza, accecata dal desiderio di vendetta per la perdita dei figli, con l’efferatezza inumana dando continuità ad una lunga e interminabile guerra quasi senza fine; sarà una macchina di morte in grado di progettare e mettere in pratica una sanguinosa resa dei conti.

L’Ecuba si apre con l’apparizione di un fantasma: Polidoro, figlio di Ecuba e di Priamo, assassinato per avidità di denaro da Polimestore, re di Tracia, lamenta il destino che l’ha colpito e rivela che l’ombra di Achille ha chiesto ai Greci, in sacrificio, sua sorella Polissena.
Svanito il fantasma che aleggiava sulla tenda di Ecuba, la regina esce piena di angoscia: ha visto in sogno Polidoro e Polissena, e un lupo sbranare una cerva, strappandola alla sua protezione.
All’arrivo di Odisseo, che ha avuto l’incarico di prelevare Polissena, Ecuba, invano, fa appello alla gratitudine che l’eroe le deve per avergli salvato la vita a Troia, un giorno; egli obietta che fredde ragioni politiche impongono il sacrificio di Polissena che si dichiara pronta a morire, consola la madre e si congeda da lei con dolcezza. L’araldo Taltibio porta a Ecuba l’ordine dei comandanti greci di provvedere alle esequie di Polissena e racconta, anche, con quanta nobiltà e coraggio la giovane abbia affrontato l’istante supremo. Ecuba impartisce le disposizioni per i funerali e, subito dopo, riceve da un’ancella la notizia della morte del figlio Polidoro. Nel mentre Agamennone viene a sollecitare i preparativi funebri e si trova davanti un inatteso cadavere; Ecuba spiega cosa sia accaduto ed esige mano libera contro Polimestore, il quale, con il miraggio di un tesoro nascosto, accetta di entrare nella tenda di Ecuba con i figli al seguito e, assalito e immobilizzato, li vedrà morire prima di essere accecato. Il re tracio predice il futuro orribile che attende Ecuba (verrà trasformata in cagna) e Agamennone (verrà ucciso dalla moglie); sdegnato dalle funeste profezie, Agamennone ordina di farlo tacere e lo destina ad esser gettato su un’isola deserta.

Note di regia:
Qualunque guerra è un “macello” e chi la fa è un macellaio, ma Ecuba è, soprattutto, la tragedia delle vittime innocenti, degli “agnelli sacrificali”: i figli. Traditi e uccisi da chi li ospita, o sacrificati in nome di insulsi valori, imperativi e tradizioni militari, o peggio ancora, uccisi per vendetta, i figli innocenti pagano le colpe dei padri e placano, con il loro sangue, la sete di vendetta delle madri. Una furia bestiale, cancella ogni forma di pietà, anche quella materna. Una catena di morti reclama vendetta, come nelle faide criminali. Ecuba è tragicamente perdente, un grumo nero di odio e disperazione, che annega il suo folle tormento nel sangue, è la protagonista di una tragedia senza catarsi, senza scampo per nessuno, dove agiscono i resti di un’umanità terminale, incapace del benché minimo dignitoso riscatto.
Carlo Cerciello

Tragica assenza di tragedia
di Carlo Cerciello
Quella umanità che nel V secolo, cogliendo il senso del tragico dell’esistenza umana, inventò la tragedia greca, è molto lontana dalla nostra, volutamente distratta dal dolore umano e dal suo destino mortale, tutta tesa com’è a congelarlo, imbellettarlo e nasconderlo, nell’impossibile desiderio di esorcizzarlo. Oggi la morte, riprodotta e ostentata in maniera ossessionante e ripetitiva, tradotta continuamente in immagine, pur nelle sue forme più cruente, ha finito per creare assuefazione, indifferenza al dolore. Goethe afferma che ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile e che se interviene o diviene possibile una conciliazione, il tragico scompare. E’ questa l’alchimia moderna: l’eliminazione del tragico dalla nostra vita. La televisione in questo è maestra e poiché costruisce un perfetto mezzo di persuasione-assuefazione, il potere la utilizza, quotidianamente, in tale direzione. L’immagine di un corpo morto, civile o soldato che sia, visto in tv fa l’effetto di uno di quei lacerti da bancone, di cui non ci chiediamo certo che vita ha avuto o quanto ha sofferto. Quando, dunque, mi è stata proposta la regia di Ecuba, prima ancora di analizzare il testo in questione e le vicende dei personaggi in esso coinvolti, ho cercato di capire come tradurre il senso del tragico in tragica assenza di tragedia. Il fastidioso gioco di parole, esplicita bene il mio senso di impotenza, di rabbia, dinanzi al perpetrarsi di una costante narcotizzazione delle coscienze, che, di fatto, allontana la consapevolezza della condizione umana e ne distrugge la dignità. L’idea della macelleria, algido obitorio sacrificale, si è fatta, dunque, strada visionaria tra i cadaveri animali di Hirst, le immagini pittoriche della filmografia di Greenaway e le lenzuola sporche di sangue di Nitsch, costruendo il possibile non luogo ideale per la rappresentazione del dramma euripideo. Il freddo bianco delle mattonelle, nella sua mortale eleganza, assente la truculenza granguignolesca, mi pare ospiti bene le atrocità di questa tragedia senza catarsi, senza scampo per nessuno dei suoi protagonisti. L’accumulo delle miserie umane, che in nome del potere, dell’ambizione, dei soldi, determina quell’escalation di morte, non mostra una goccia di quel sangue innocente versato, non impressiona più. La differenza tra corpo morto e corpo vivo si smarrisce tra i ganci delle celle frigorifere. Il cinismo di una borghesia volgare e vorace si traveste da ragion di stato ed emerge tra i grembiuli da macellaio, mentre il dolore disperato e lancinante di Ecuba si schianta e rimbalza sulle gelide pareti della macelleria. Ecuba è un testo straordinariamente moderno, in cui accanto ad una crudeltà spietata, tanto assimilabile a quella delle nostrane faide criminali, dove in nome dell’onore e dei vincoli parentali si può ottenere “soddisfazione” per il torto subito, trovano posto l’amore meraviglioso, assoluto di una madre e quelle richieste di pietà e giustizia disattese dalla consapevole sordità del potere, cui oggi siamo purtroppo abituati. “Vento, vento di mare, che rechi sul gonfio dell’acqua navi che rapide varcano muri d'acqua, dove, povera me, mi vuoi portare? Io, in un paese straniero,avrò il nome di schiava. In cambio dell'Asia che abbandono, avrò la stanza nuziale della morte, l'Europa” recita il coro prigioniero, prossimo ad un viaggio verso la schiavitù o la morte, e ci pare di sentire le voci emigranti, ormai spente nei fondali del mare dell’indifferenza.


organizzazione: Centro Servizi Culturali S. Chiara