I vagabondi
Olga Tokarczuk, nata a Sulechów nel 1962) è una degli scrittori polacchi più acclamati di sempre, particolarmente nota per il timbro mistico della sua scrittura. Dopo aver studiato psicologia all'Università di Varsavia, Ha pubblicato raccolte di poesie, romanzi e con "I vagabondi" (in Italia edita da Bompiani nel 2018) ha vinto l'International Man Booker Prize.
Presentando il movimento e l’errare come una condizione universale, disciplinata dalla storia ma con una forza anarchica tutta sua, la Tokarczuk ricorda al lettore che lo spostarsi non è creato solo da necessità ma anche da desiderio di essere e vedere. Un inno nomadico questo suo romanzo, paragonato ad ‘Austerlitz’ di Sebald.
Chiara Durastanti la presenta così:”arriva una scrittrice polacca a ridefinire il rapporto tra scrittura, viaggio e l’io testimoniale. E lo fa in un modo splendido, perché invece di rendere sé stessa il sole di un romanzo attorno al quale ogni cosa gravita e ogni luogo attraversato si addensa, si trasforma in una stella all’interno di una costellazione – molti dicono una costellazione europea, ma il margine di riferimenti è molto più ampio–, un astro viaggiatore: uno dei tanti.
È proprio nel suo essere un’osservatrice transiente, a tratti animata da una seduttiva irrilevanza, che questa narratrice ridefinisce i confini di cosa significa raccontare un viaggio”.
In un’intervista su “D di Repubblica” a proposito de ‘I Vagabondi’, Olga Tokarczuk ha detto che questo suo libro è letteralmente composto di frammenti: ogni storia una pagina, o cinque, o ventisette, che poi lei ha disteso o sparpagliato attorno a sé sul pavimento per salire infine su una sedia o un tavolo a contemplare dall’alto l’arcipelago di carta da lei creato e decidere quale ordine dare a tutte quelle pagine.
Chissà se è vero, o se non sia invece un dubbio su di lei raccontatrice, sulla sua credibilità, se non sia piuttosto l’immaginazione di chi scrive ad attribuirle un atto così poetico e demiurgico insieme, mescolando l’episodio ascoltato o letto – forse non proprio in questo modo – con una visione a distanza della sua casa fotografata per la bella conversazione con Wlodek Goldkorn su “D”: un tavolo c’era, grigio, il grigio del bianco e nero o forse del legno molto consumato da anni di piatti, stracci e scritture, e poteva essere un buon posto d’avvistamento per salirci e starci senza troppa paura di cadere e poi, una volta saliti, sorvegliare da un’altezza media eppure notevole un’opera desiderosa di prendere forma.
Il lettore dei Vagabondi ha bisogno di visioni e scostamenti, di libertà e leggerezza per assecondare gli scarti logici squisiti secondo cui Olga Tokarczuk ha montato (o forse no) il suo romanzo. Ha bisogno di lasciarsi andare e di accogliere il mondo, come un viaggiatore o pellegrino che cammina e va senza ansia o fretta, e raccoglie quello che viene, nell’ordine o disordine della vita come viene.