Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano

Cinema

Francia, 2003
Titolo originale: Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran
Durata: 94'
Genere: Drammatico
Regia: François Dupeyron
Cast: Omar Sharif, Pierre Boulanger, Isabelle Adjani

Dall'omonimo romanzo di Eric Emmanuel Schmitt. Nella Parigi degli anni '60 un viaggio meraviglioso oltre il tempo e lo spazio. Ibrahim ha un piccolo emporio nel quartiere ebraico. Momo, 12 anni, è un suo cliente abituale. Fra i due si instaura presto un rapporto di profonda amicizia ed il confronto delle loro generazioni, culture e religioni diventa insegnamento e apprendimento per entrambi.

Anni Sessanta, Momo, ragazzino parigino d'origine ebraica, vive abbandonato a se stesso con un padre depresso e deprimente, e fa amicizia con il vecchio droghiere musulmano di rue Bleue. Tra un acquisto e un furtarello (tollerato) nella bottega del Monsieur Ibrahim, Momo impara un po' di quella saggezza leggera e tollerante che il vecchio distilla con sense of humour dal "suo Corano". Abbandonato anche dal padre, Momo viene adottato da Ibrahim che si prende cura di lui e lo conduce in un lungo viaggio verso la sua natia Turchia.
Tratto da un racconto dello scrittore e commediografo Eric-Emmanuel Schmitt (in Italia pubblicato da e/o), e probabilmente irrigidito da tale impronta letteraria, il film ha goduto a Venezia e nella successiva distribuzione nelle sale dell'effetto Leone d'oro alla carriera per l'interprete Omar Sharif, nome d'arte di Michel Shalhoub, nato in Egitto nel 1932.
Premio che ha lasciato un po' perplessi, visto che lo stesso attore, con grande senso di auto ironia ha affermato: "Negli ultimi venticinque anni non ho fatto nulla di buono al cinema", e allora più che la carriera, iniziata nel 1953 con Chahine per il film Siraa Fil-Wadi e proseguita con Lawrence d'Arabia (1962), Il dottor Zivago (1965) o il Rosi fiabesco di C'era una volta (1967), per poi continuare con film spesso mediocri e con lunghi periodi di distacco dal set e immersione nelle sale da gioco del bridge professionistico, la giuria poteva premiare la sua ultima e convincente interpretazione di Monsieur Ibrahim. L'esperienza negativa de Il tredicesimo guerriero con Banderas gli aveva fatto pensare a un abbandono del cinema, ("Basta con le fesserie, basta con i brutti film che si fanno solo perché ben pagati", confessa di essersi detto l'attore egiziano), ma la figura tra fiaba e memoria del personaggio Ibrahim lo ha convinto a ricominciare e partecipare con grande entusiasmo al progetto.
Il regista francese Francois Dupeyron (classe 1950), di cui in Italia si vide solo La machine, che nel suo Dizionario Morandini stronca come horror paradossale, spesso involontariamente ridicolo e girato con stilemi televisivi, stavolta ha fatto un film che si lascia guardare volentieri per la simpatia dei due personaggi principali e la bravura degli attori, ma che risulta un po' rigido per il montaggio "a fratture" e per il bozzettismo dei personaggi minori. Risultano poco credibili soprattutto i due genitori del protagonista. L'ambientazione anni Sessanta, sebbene piacevole, è cartolinesca e un po' ruffiana: Il ragazzo si muove, e con lui la macchina da presa, tra le pittoresche e un po' teatrali vie parigine, con puttane gentili, belle macchine e musica dai transistor.
La forza del film sta nel delineare senza didascalismi o patetismi il rapporto tra il vecchio mercante sufi Sharif e il giovanissimo protagonista d'origine ebraica abbandonato dai genitori. Nel microcosmo del quartiere di impronta mediorientale, il tredicenne scopre il sesso grazie alle generose prostitute, sopravvive all'abbandono del padre vendendo i libri della cupa casa parigina e impara il piacere della vita attraverso i fiori del corano di Ibrahim: "Il segreto della felicità è la lentezza"; "Ciò che dai è tuo per sempre ciò che tieni è perduto per sempre", e così via.
In una breve scena in cui una diva del cinema passa nella bottega di Ibrahim c'è anche un cameo della Adjani.
Il rischio Baci Perugina è sempre incombente ma viene evitato grazie alla bravura del vecchio Sharif, che sceglie la corda ironica e che conduce il figlio acquisito in un viaggio reale e simbolico (dell'Europa attraversata in spider, il regista inquadra solo il cielo). Giunti in Turchia e in Cappadocia dov'è nato Ibrahim, c'è pure una scena che ci mostra i dervisci danzanti, i due vanno verso una fine e un nuovo inizio.
Giovanni Petitti, 19/09/2003
da: www.frameonline.it/Rec_Monsieuribrahim.htm