Musica e Natura III

Musica , Concerto classico
Conservatorio di musica [ F.A.Bonporti]

La Bandamaestri

Pier Luigi Maestri, flauto e voce narrante
Lorenzo Guzzoni, clarinetto
Tinto Maestri, clarinetto basso
Corrado Ruzza, pianoforte
Gianfranco Grisi, concertina
Gabriele Rizzoli, percussione
Marianne von Campenhout e Milo Maestri, violini
Klaus Manfrini, viola
Federico Magris, violoncello
Massimiliano Rizzoli, contrabbasso

Introduzione di Federica Fortunato e Pier Luigi Maestri
(Conservatorio “F.A. Bonporti” di Trento)

Maurice Ravel (1875-1937)
Ma Mère l’Oye
Pavane de la Belle au bois dormant
Petit Poucet
Laideronnette, Impératrice des Pagodes
Les entretiens de la Belle et de la Bête
Le Jardin féerique

Francis Poulenc (1899-1963)
L’Histoire de Babar, le petit éléphant
versioni da camera di Leonardo Benini, Fabio Conti e Valentina Massetti

Ma mère l’Oye

La prima esecuzione di Ma mère l’Oye avviene nell’aprile del 1910 all’interno del concerto inaugurale della Société musicale indépendente (di cui Ravel è tra i fondatori), in un programma di novità, implicito manifesto della missione modernistica del nuovo organismo. Nel giro di pochi anni, tra la Sonatine del 1905 e il folgorante Gaspard de la nuit (1908), Maurice Ravel aveva concentrato pagine pianistiche dallo stile disparato ed estremo, esplorando tecniche e stili, alla ricerca di una voce propria affrancata dall’ombra debussiana. All’opposto dell’allucinato trittico di Gaspard, rigoglioso di tecnica e di arditezze armoniche, Ma mère l’Oye è il trionfo di un’apparente semplicità, insieme ad una altrettanto apparente ingenuità di ispirazione. Dedicata ai figli degli intimi amici Godebsky, è un’incursione nell’immaginario infantile dove lo stupore per la natura e la fantasia non riparano dalle angosce profonde dell’abbandono e della morte. Di personaggi e di luoghi, di smarrimenti, metamorfosi e altri incanti (archetipi elaborati da favolisti francesi del ‘600 e ‘700) Ravel coglie l’essenza fissandola con una scrittura tersa, ma piena di risonanze. Con un senso di evasione dal tempo e dalle asperità del mondo si è introdotti nel labirinto fantastico attraverso le venti battute della Belle au bois dormant che arcaismi e calibrata combinazione di ogni elemento rendono un esempio di quella ‘perfezione’ lucidamente perseguita da Ravel. Il racconto di Petit Poucet è colto nel momento in cui il piccolo eroe sperimenta il disincanto: sparite le briciole di pane, e con esse la strada di casa, è l’universo ad aver perso il suo ordine; da qui il disorientamento incredulo espresso da un moto continuo, tutto esitazioni, ritorni, cambi di tempo. La marcia di Laideronnette è invece una sorpresa continua e gioiosa, con fluidi effetti di ‘cineseria’ nel suo procedere pentafonico ora infantile (le dita sui cinque tasti neri) ora smaliziato e impertinente. Su un tempo di valzer che solo a tratti emerge come tale, alla leggerezza sognante della Belle si affianca il bofonchiare grave della Bête; esitazione e affanno si placano nel momento luminoso dove l’inciso del mostro (terzina cromatica discendente) si trasfigura nel registro acuto. Senza storia o personaggi, Le jardin féerique è un’esperienza progressiva; nonostante il tempo ternario, si passeggia concludendo nell’apoteosi di glissandi festosi, fusione finale con il mondo del meraviglioso. Contro l’intangibilità romantica dell’opera e con il gusto artigianale della trasposizione timbrica, Ravel abbraccia con gioia richieste esterne e provvede ad orchestrare la suite che nel 1911 (arricchita di Prélude, Dance du rouet, quattro interludi) diventa suite sinfonica e balletto. Considerata da subito una delle opere più notevoli del suo tempo, Ma mère l’Oye conosce una rapida popolarità in tutte le versioni, non esclusi gli arrangiamenti di orchestrine da cinematografo.

L’Histoire de Babar, le petit éléphant

Saremmo delusi se l’aneddoto intorno alla nascita di queste pagine pianistiche fosse solo una giocosa invenzione. È lo stesso Francis Poulenc a raccontare la scena originaria in una lettera dell’agosto 1940: da poco smobilitato e in riposo a Brive (Limoges), mentre è al pianoforte viene interrotto dalla figlioletta dei cugini che, mettendogli sul leggio la storia illustrata dell’elefantino Babar, lo incita a suonare qualcosa di davvero interessante. E Poulenc improvvisa prendendo spunto dalle idee che la piccola via via gli suggerisce; passeranno poi tutti gli anni di guerra prima che rimetta mano a questo divertissement, sembra ancora per stimolo della stessa cuginetta che nell’estate del 1945 non demorde: «Et Babar?» Nel momento di rinascita post-bellica Poulenc vive in uno stato di effervescenza creativa; all’orchestrazione delle Mamelles de Tirésias e all’abbozzo di un quartetto d’archi affianca la stesura di queste «diciotto occhiate sulla coda di un giovane elefante», come medita di chiamarle con un irriverente riferimento ai recenti Vingt regards sur l’Enfant Jésus di Messiaen. Non una suite di brani separati, ma «una specie di mosaico fra i testi»: il risultato è un intreccio di recitazione e musica sulle avventure del personaggio creato nel 1930 da Jean de Brunhoff e diventato rapidamente un cult infantile in tutto il mondo occidentale. Diversamente dal programma didattico-descrittivo di Pierino e il lupo, la musica è qui sollecitata dal linguaggio buffo e dal tono svagato del testo; libertà e umorismo caratterizzano la scrittura pianistica che si anima di soprese e, se non abbandona la grammatica tonale, non si preoccupa dei suoi confini. La storia si apre su una berceuse dall’attacco spaesante e sereno e si conclude, dopo la solennità della marcia nuziale e la polka scintillante della festa, su una pagina sognante: «Il finale è venuto nello stile poetico: casta notte d’amore ad uso dei bambini», secondo le parole dell’autore. Tra queste due porte della fiaba, una grande varietà di gesti sonori pittorici o allusivi: l’irruente ostinato del cucciolo che corre nella foresta, il pianto del piccolo orfano sulla melodia materna della ninna nanna, la volata quasi dodecafonica per lo sparo del cacciatore, il valzer lento per la vecchia signora e quello spumeggiante per la scena in pasticceria. Ma al di là dei procedimenti mimetici, il fascino del lavoro viene dall’adesione immediata di Poulenc al sentire della comunità infantile a cui è dedicato: «ho fatto sicuramente un grande passo essendo riuscito a conservare solo l’essenziale». Anche in questo caso la richiesta di strumentazione viene dall’editore; Poulenc se ne esenta ingaggiando un entusiasta Jean Françaix che nel 1962 produce la sua trascrizione forse più nota, esaltando dell’originale sia gli effetti descrittivi che la multiforme espressività (Federica Fortunato).  

parte di: Mondi Sonori