Pollock

Cinema

Il museo nella città
Cineforum: Cinema, pittura e fotografia

Usa, 2000
Titolo originale: Pollock
Genere: Drammatico
Durata: 122'
Regia: Ed Harris
Cast: Ed Harris, Robert Knott, Molly Regan, Marcia Gay Harden, Tom Bower, Amy Madigan, Jennifer Connelly, Jeffrey Tambor, Val Kilmer, Bud Cort, John Rothman, John Heard

L'artista alcolizzato che non riesce ad avere il giusto riconoscimento per la sua opera è già di per sé un cliché cinematografico perfetto. È indubbio però che ciò che ha raggiunto Ed Harris dirigendo e interpretando questo film è l'attenzione dello spettatore, e sicuramente molti di quelli che lo hanno visto hanno voluto saperne di più su Jackson Pollock, uno dei più grandi artisti del ventesimo secolo. Ogni singolo gesto che compiva sulla tela aveva sempre un significato per lui e per chi ha la sensibilità di trovarlo

Jackson Pollock (1912 –1956) nell’immediato dopoguerra emerge come caposcuola dell’espressionismo astratto nella città di New York. I dieci anni della sua gloria e del suo declino psico-fisico sono narrati da Ed Harris che interpreta anche il pittore (notevole oltretutto la somiglianza). In una New York degli anni 45’ – 55’, filologicamente ricostruita, sia negli arredi, che nelle fattezze dei personaggi – Peggy Guggenheim, e i colleghi come Willem de Kooning (Val Kilmer) o il pittore Kenny Sharf (William Baziotes) – si snodano in un decennio le vicende che devastarono la mente nevrotica di Pollock, la vetta del successo e la relativa autodistruzione e morte. Pollock passò da un sordido appartamento ad una residenza principesca presso Long Island, dalla povertà alla ricchezza, affiancato da una depressione cronica, potenziata dall’alcolismo. Harris focalizza la figura della moglie e pittrice Lee Krasner (Marcia Gay Harden) quale sostegno fisico e spirituale per una personalità turbata e violenta.
“Pollock” tuttavia non è una biografia: è piuttosto un film che parallelamente al processo creativo dell’artista vi affianca quello analogo del regista e protagonista. Ed Harris si impossessa con passione del personaggio leggendario, dell’inventore dell’”action painting”, del ”dripping”, la tecnica dello ’sgocciolamento’ della vernice sospesa sopra la tela stesa in terra. Ne visualizza la percezione distorta della realtà. Celebra l’apologia della disperazione come fonte di edificazione di un’idea irripetibile non con enfasi romantica ma con un rigore formale complementare al carattere introverso del pittore. Che per ossimoro esplodono nel momento decisivo della creazione come esclamazioni che scandiscono un mesto vociare.
Ne consegue che la struttura stilistica del film è analoga a quella mentale dell’artista. Il confine tra interpretazione e incarnazione svanisce: Harris non è uno storico ma un attore e cantore. Non allinea fatti, persone e ambienti. Ma rapsodicamente assembla in apparente disordine eventi sintomatici della vis creativa e autodistruttiva di Jackson Pollock. Come nel sottofondo musicale della schizofrenica sinfonia Jazz, la compattezza del suono è conferita dalla totalità dell’insieme, non dalla singola nota. Così le tele sferzate dalla frustate cromatiche si configurano nella loro disperata bellezza solo osservate non da presso ma distaccati di qualche passo. L’oleografico “Frida” di Julie Taylor impallidisce in un istintivo confronto. "Basquiat” di Julianne Schnabel può solo esserne un pallido seguace. E la sequenza in cui Pollock osserva le alghe fluttuanti a pelo d’acqua che suggeriscono a lui e a noi la similitudine con la sua imminente tecnica del ”dripping”, e collegano formalmente natura ed arte non esige altri commenti che la muta contemplazione della idea che si traduce in un’immagine. Come la cupa personalità di Pollock, la verità filmica è srotolata nelle visione asemantica di ogni fotogramma.

Anni esplosivi per Jackson Pollock, dal 1941 fino alla morte su una strada di Long Island nel 1956. Arte e vita, un connubio straziante. Arte che pretende, vuole gratificazioni, riconoscimenti, sicurezza, e al contempo rivendica libertà, potere, disprezzo. Una dannata possessione che fa dimenticare tutto il resto. Ed Harris è riuscito a mostrare l'esaurimento di una vita per l'arte, per l'impellente necessità di esprimere qualcosa di sé. Questa urgenza divora la vita di Jackson Pollock. L'alcol è lo strumento per avvicinarsi all'oblio dei sensi, penetrare il segreto che rivela il sublime, l'atto unico e irripetibile del gesto artistico, figurare la forma, il colore sulla tela. Il tormento continua incessante a causa di questa ricerca dolorosa, non troverà mai un'effettiva mitigazione. Harris capovolge la narrazione (si tratta di un ribaltamento illusorio?): inizia dalla fine il film. Vale a dire dalla scena in cui, in un'atmosfera ipnotica, Pollock, già famoso, è circondato da decine di ammiratori che chiedono autografi. Una ragazza in particolare si sta avvicinando con la pagina di "Life" in mano, quella pagina che ha reso celebre anni prima Jackson Pollock. Lo sguardo di Pollock è perso nel vuoto. E il film riprende "nove anni prima". Pollock è sempre lì con l'occhio lucido e perso. L'incontro con Lee Krasner (Marcia Gay Harden) è decisivo. Lee Krasner è la vera protagonista dell'azione, la donna a cui si deve ogni movimento della vita di Pollock. Non a caso la fine tragica del pittore, per incidente d'auto, avviene subito dopo l'abbandono di Lee. Mentre il percorso pittorico, dalle ispirazioni messicane (Siqueiros, Orozco, Rivera) alle tecniche più astratte del dripping, è stimolato, quasi organizzato nei suoi più saldi tracciati dalla moglie Lee, la quale sembra aver capito fin dall'inizio la genialità del marito. Ma sa anche che tale singolare energia espressiva ha bisogno di argini grossi per essere addolcita e diretta verso qualcosa di concreto, perché facilmente può disperdersi o dissolversi nella furia nichilista d'una bottiglia d'alcol in più, o in un capriccio sessuale (ma alle amanti, come Ruth/Jennifer Connelly, mancherà proprio la percezione di una personalità che ha bisogno di attenzioni speciali).

Pollock coglie le stratificazioni psicologiche di una coppia, l'interazione misteriosa di due caratteri, sospesa e spesso silenziosa, ben rappresentata nel film anche attraverso i luoghi comuni, i litigi, le esplosioni di rabbia che si placano con lo scambio leggero di sguardi. In una prospettiva semplicemente di "visione" il film delude per la sua classicità (da biopic) fin troppo austera e stritolata dagli standard e stereotipi sull'artista maledetto. Harris sembra non voler mai prendersi la responsabilità di un'immagine più ardita (forse proprio per rimanere in una dimensione umile, prettamente umana: lo dimostrerebbe l'indifferenza importante degli innumerevoli parenti "modesti" di Pollock verso la sua arte). L'esempio citato di montaggio è poco più che brillante, solo se considerato come metafora di circolo vizioso, mentre più normalmente lascerebbe supporre il banale inquadramento, per esigenze narrative, di un periodo temporale che ha caratterizzato l'ascesa del pittore, insomma il momento più significativo della sua arte. Un tipo di focalizzazione che troviamo nel novanta per cento dei film biografici.
Ed Harris, davanti la mdp, appare sempre concentratissimo, quasi in trance; esprime coraggio, tristezza, sconforto, forza, ribellione, arroganza, presunzione, rabbia, spesso con una sola smorfia del volto. Non è poco.
Andrea Caramanna


organizzazione: Museo Civico di Riva del Garda