Remo Wolf - Cicli xilografici
a cura di Priamo Pedrazzoli e Giovanni Daprà
Il nuovo Spazio Civico Albano Tomaselli, al piano terra della biblioteca comunale, ospita una mostra antologica dei cicli xilografici di Remo Wolf curata da Priamo Pedrazzoli e Giovanni Daprà.
Inaugurazione sabato 3 luglio alle 18.
Dalla presentazione al catalogo di Roberto Festi, architetto.
La statura europea dell’opera di Remo Wolf è incontestabile. Non è un caso che egli sia indicato come “un riformatore della xilografia”, artista che si è impegnato, assieme ad altri pochi e prestigiosi artefici, per riportare la tecnica incisoria ai fasti del passato. Remo Wolf è anche indiscutibilmente uno dei protagonisti dell’arte trentina del Novecento.
Le sue opere si relazionano con una carriera artistica formidabilmente longeva che si articola per oltre settant’anni percorrendo quasi tutto il “secolo breve”.
“Iniziatosi ai segreti del pennello e del colore assai prima che non a quelli della sgorbia o del bulino”, come ha ricordato Giorgio Trentin nella ancora attualissima monografia, Wolf mantiene tuttavia con la xilografia, per la quale si dichiarava autodidatta, un rapporto di intima e costante ricerca, ponendola al centro del suo fare artistico e diventandone un rinnovatore tecnico di livello assoluto. Nel 1952 con Giovanni Barbisan, Lino Bianchi Barriviera, Mario Dinon, Giovanni Giuliani, Tranquillo Marangoni, Neri Pozza, Virgilio Tramontin e Tono Zancanaro è tra i fondatori dell’Associazione Incisori Veneti.
La mostra di Castel Ivano, accompagnata da un nuovo e analitico volume sull’artista trentino - che nascono dalla passione e dalla competenza tecnica di Priamo Pedrazzoli e Giovanni Daprà - analizzano non a caso un aspetto fondamentale dell’arte di Wolf, che è quello legato ai “cicli”. Con il rientro dall’esperienza bellica, Wolf abbandona progressivamente il “legno di testa”, con il quale aveva esordito nel 1929, per approfondire con sempre maggiore perizia quello “di filo” che gli permette esiti formali diversi esaltando una scioltezza di segno che appare sempre più convincente.
Nel dopoguerra (1950, 1954 e 1956) la Biennale veneziana ospita Wolf che in quelle occasioni presenta sempre delle xilografie, segnale indiscutibile del ruolo primario che l’attività incisoria è venuta ad assumere nel suo percorso artistico. Sono opere ormai mature, evoluzione naturale di una fase di studio dove il disegno non ha segreti e dove la tavola incisa appare di un’efficacia sorprendente. Sono appunto gli anni nei quali l’artista accosta al tema libero della singola tavola i più articolati e colti cicli narrativi, indicatori di un’attenzione a tematiche del proprio tempo o del passato che Wolf propone come acuto osservatore e sagace critico.
Cicli fondamentali vi erano stati anche prima della guerra: quelli della “Danza della Morte” (1933) e dei “Sogni” (1939) con i quali l’artista inizia a sperimentare la narrazione a tema. E altrettanto determinante nell’opera wolfiana è il ciclo di sette fogli della “Piccola pazzia” (1946), permeato dal dramma della prigionia, che poi riprende e sviluppa tra il 1955 e il 1965 nel più articolato “Incubi di ieri e oggi”.
Questo desiderio di “narrare” su più fogli si intensifica dalla metà degli anni Settanta e per tutti gli Ottanta, quando - complice il pensionamento dall’insegnamento - i tempi di lavoro assumono ritmi diversi.
Molti sono confluiti come iconografia di prestigiose edizioni d’arte, testimonianza di una potenzialità espressiva che ha raggiunto l’apice e dove il fascino del racconto si lega indissolubilmente ai caratteri più propri dell’artista: l’ironica lettura, la sottile irriverenza, il gusto della narrazione. Negli anni più recenti, la sperimentazione si rivolge a xilografie a uno o più colori, alcune delle quali realizzate con la tecnica del “legno perso” che Wolf si inventa come stimolo e sfida estrema nel campo incisorio.
L’evoluzione del tratto xilografico e l’uso di differenti linguaggi incisori, che si evolvono nell’arco della lunga esperienza artistica, possono essere ben compresi in questa mostra e nel prezioso catalogo di Pedrazzoli e Daprà che sintetizzano l’intero corpus della produzione wolfiana ma si spingono anche verso altri inediti e documentati approfondimenti.
Di Wolf si noteranno dunque alcuni passaggi fondamentali che rendono conto della statura artistica e tecnica: il segno fitto e minuto reso con il legno di testa; le zone a incastro con diversi giochi di luce; i ritmi e le sequenze geometriche che suddividono la tavola; l’adozione della “linea chiara” a esaltazione dei contorni; la cornice perimetrale scura contrapposta alla massa bianca punto focale della composizione; le ricercate texture degli sfondi e delle parti decorative; l’intrico nervoso e apparentemente caotico, con la sgorbia che emula il tratto della penna; l’essenzialità del segno affiancato al ricercato virtuosismo del dettaglio; l’equilibrata adozione, nello stesso legno, di piani e registri diversi per esaltare il racconto nei cicli narrativi.
L’aspetto umano in Wolf, per chi lo ha conosciuto e frequentato in modo non superficiale, è inscindibile da quello artistico. Imbronciato e rude in realtà Wolf si apriva all’interlocutore in modo estroverso e sensibile, complice quell’“ironia talvolta amara e pungente che non esclude comunque moti di candore disarmato e sincero”. Il privilegio della frequentazione ha permesso non solo l’approfondimento del suo fare artistico, ma ben più la possibilità di intensificare la conoscenza dell’uomo, della sua personalità, inquieta e tormentata, del suo rigore morale.
Ed è prezioso l’aver potuto dialogare con chi ha condiviso l’esperienza artistica e umana con colleghi come Umberto Moggioli, Gino Pancheri, Fortunato Depero, Luciano Baldessari, Luigi Bonazza, protagonisti di quella stagione dell’arte trentina del Novecento che travalica i confini territoriali e si impone in ambito nazionale e internazionale. Al loro livello, con pari dignità, c’è il lavoro di Remo Wolf da sempre schivo nel chiedere e nell’apparire, ma non per questo meno protagonista.
Roberto Festi
ingresso gratuito