Skin deep. Il corpo come luogo del segno artistico

Mostra

Paul Valery diceva che niente è più profondo della pelle nell’essere umano.
Il corpo, nei rituali tribali come nelle liturgie iniziatiche, diventa mezzo espressivo, testimonianza, base sui cui tracciare segni e iscrivere messaggi.
Così l’arte, nel corso del XX secolo, ha mutato il suo rapporto con il corpo, confondendo arte e vita ed abbattendo ogni barriera tradizionale.
I corpi fisici sono divenuti corpi d’arte: non più oggetti esterni che si guardano dal di fuori, da rappresentare ed interpretare, non più un semplice dato della realtà da narrare e riprodurre, ma superficie della pittura e dell’azionea, essi stessi materiale, strumento linguistico, mezzo per la produzione artistica.
Al Mart di Rovereto con la mostra Skin deep. Il corpo come luogo del segno artistico, in programma dal 28 ottobre 2003 fino al 18 gennaio 2004, questo linguaggio dell’arte, ma anche della vita (la mostra si apre con una ventina di affascinanti fotografie dei Papua delle Higlands, in Nuova Guinea, realizzate da Malcom Kirk), viene indagato attraverso i lavori di una serie di artisti di differenti nazionalità che, rivalutando una fisicità irriducibile e un rapporto sensuale ed organico con la realtà - contrapposto alla ridondanza tecnologica dell’attuale videoarte - hanno usato ed usano il corpo come matrice di segno, materia espressiva, “ricettacolo dell’anima”.
Ma l’uso del corpo come espressione artistica - in parallelo con l’evolversi del concetto stesso d’opera d’arte, che non vale più per il possesso quanto per i suoi contenuti, sorta di specchio dell’esistenza - è anche atto di “rottura”, di svelamento di tabù collettivi, di trasgressione dei divieti.
Se ciò ha comportato allora, da parte di molti, anche la messa in scena violenta e brutale della sofferenza, della lesione, della ferita praticata sul corpo - fatto regredire a puro stadio organico - gli assunti e le scelte degli artisti nella mostra di Rovereto sono altri: quella proposta è “un’indagine che vuole porre in primo piano un corpo materiale atto a produrre linguaggio, senza con questo ricorrere ad effrazioni, torture, sacrifici. Un corpo assolutamente inviolato - scrive Luigi Meneghelli, ideatore e curatore dell’esposizione, assieme a Giovanna Nicoletti e Giorgio Verzotti, con la direzione progettuale di Gabriella Belli - un corpo vergine, non in quanto chiuso ma in quanto aperto, “disponibile” a tutte le progressioni del sapere, fino al limite di arrivare ad accogliere il dispendio espressivo (cromatico) o l’elemento decorativo”. E ancora: “un corpo la cui pelle diventa supporto, specchio, matrice di un ipotetico abbellimento, di un ordine superiore, di un elegante effetto estetico…che esalta l’io facendosi, attraverso il segno, questione affascinante, inquietante, problematica”.
Al Mart così, ci saranno anche le testimonianze di esponenti storici dell’azionismo viennese, ma laddove questi, pur ricordando in modo cruento le brutalizzazioni del corpo sui campi di battaglia e nei campi di concentramento, abbiano introdotto nelle loro azioni il corpo umano come superficie pittorica e la “pittura”, intesa in senso lato, sia divenuta materiale “intrinseco” allo stesso accadere azionistico: Otto Muehl, Hermann Nitsch, Gunter Brus, Rudolf Schwarzkogler. Ci saranno i lavori del gruppo giapponese Gutai, che intorno agli anni ’50 usava il proprio corpo come strumento pittorico vivente: da Fujiko Shiraga - di cui sarà in mostra un video del ’59, proveniente dall’Ashiya Museum of Art and History, e un olio su tela con le tracce del proprio corpo - ad Akira Kanayama che ricopre di proprie impronte una lunga striscia di plastica senza fine (opera riproposta dall’artista appositamente per questa mostra), fino all’attuale Shozo Shimamoto, che presenta l’immagine sindonica, lasciata su lenzuola, del corpo di una modella, bagnata di vino.

Quindi lavori significativi degli anni ’60 e ’70, a partire dalle “antropometrie” di Yves Klein e dalle “impronte” o dalle “sculture viventi” di Piero Manzoni, che aprono la strada alla Body Art e al Concettuale.
Nell’ambito della Body Art (locuzione che entra nella terminologia della critica internazionale tra il 1973-74) sono state scelte quelle azioni che, pur rispondendo al linguaggio primitivo e non censurato, quasi barbarico, proprio del movimento testimoniano anche un ”essere al mondo” come trasmissione di segni, continuo scambio di energia: da Art Make-up datato 1967-68 di Bruce Nauman, a 2 Dennis Oppenheim; da Application,s del ’70, di Vito Acconci, fino a Wunden di Arnulf Rainer, (opera che fa parte delle collezioni del Mart) e a Black and white Tapes di Paul McCarthy; e ancora i lavori di esponenti dell’Arte Povera che, in qualche loro prima esperienza operativa, sono ricorsi alla parola impressa sul corpo come traccia simbolica, con cui documentare il loro esserci e il loro “respirare” sulla terra; oppure che hanno mirato a rompere la rigorosa superficie formale del corpo e ad immettervi il senso del movimento e della pulsione, lavorando sull’epidermide e sull’idea di confine che essa rappresenta: Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari, Gilberto Zorio, Giuseppe Penone
Anche il gruppo Fluxus è rappresentato a Rovereto da alcuni artisti “simbolo”, come Ben Vautier, di cui sarà documentata un’azione del ’67, e Carolee Schneemann presente in mostra con un video di proprietà del Mart, realizzato nel ’76: Up to and Including her limits
Le donne, in campo artistico, si sono confrontate con il proprio corpo per lo più alla ricerca di un linguaggio anticonvenzionale e primordiale, fatto di gestualità: spinte dalla necessità di una superficie d’arte che appartenga loro totalmente e con la quale esprimere il proprio io più vero. Rivendicazioni sociali, affermazioni femministe, volontà di dare voce alle proprie radici ma anche alla propria “diversità“ caratterizzano le performances e i lavori di queste artiste: da Annette Massager a Ketty La Rocca, da Valie Export fino a Mona Hatoum, che affronta i temi della separazione, dell’oblio, della guerra, del vuoto e della disperazione.
Gli anni ’90, nel segno della globalizzazione, della caduta dei Muri, dell’annullamento di ogni luogo nello spazio universale spingono molti artisti a reagire e a cercare nuove forme di affermazione della propria identità e della propria cultura, raccontando di una relazione autobiografica con il mondo: ecco le impronte digitali dell’albanese Adrian Paci, l’opera dell’americana Rachel Lachowitz, che re-interpreta ironicamente l’azione kleiniana, ma anche il lavoro di Giuseppe Achille Cavellini, che già sul finire degli anni ’80, in un processo di auto-storicizzazione, scrive la propria storia sul cranio del giapponese Shimamoto; quindi i video e le foto dell’iraniana Shirin Neshat, quelle di Catherine Opie, o l’azione di Ross Sinclair
Ecco i video che sempre più si sostituiscono alle azioni esperite in diretta, modificando “la sostanza corporea in sostanza immaginaria”, ma anche ampliando le possibilità e le chiavi di lettura del corpo, non più chiuso in se stesso e non più legato alla propria fisicità, come nel caso di Incidente of Catastrophe (1987-88), video straordinariamente affascinante ed enigmatico di Gary Hill. Ecco infine, nei lavori riproposti attraverso video e foto di Vanessa Beecroft, il corpo che si adegua alle mode, ai condizionamenti del paesaggio e del contesto, alla bellezza finta ed indistinta dell’omologazione: perché il corpo - scrive Giovanna Nicoletti nel catalogo della mostra edito da Skira - “è la superficie in continuo divenire delle anime del nostro tempo… la frammentazione del nostro quotidiano”