Strange days - Annamaria Targher
Strani giorni documenta, innanzitutto e con algida rendicontazione, i mesi che l’artista ha vissuto, suo malgrado e parimenti a tutto il resto del consorzio umano, nella cattività della segregazione del proprio studio.
Lo spazio intimo e conosciuto si ritrova così a poter essere vissuto come una malsana imposizione: e non solo, quindi, come protettivo, come caverna da cui far uscire, attraverso la creazione, la vita e di cui la serie Una stanza tutta per
sé, all’ingresso in mostra, ne è un esplicativo esempio.
Lo studio può essere lo spazio giocoso in cui inventare e reinventarsi attraverso la coltivazione di una pittura specchiante, lenticolare (Pittura lenticolare) che vuole omaggiare la grande pittura d’interni rinascimentale fiamminga: in cui il
soggetto può perdersi tra le proprie mura per ritrovarsi replicato e visto, così, da più punti di vista diversi, ma che riconducono, con sicurezza, tutti allo stesso fulcro, fondante identità. E’ anche il luogo in cui la pittura si libra
sull’ambiente circostante, registrandolo e portandolo alla ribalta, isolandolo in icastiche rappresentazioni di nature morte, in cui l’uso insistito della tecnica dello stencil, fa il verso a quel tipo di decorazione così spesso accostato alla
leggera e amena pratica femminile (Ghiande alla Biedermeier).
Da lì, Targher prende l’avvio per un meditazione, non individuale, bensì collettiva, sugli spazi racchiusi, ma non per forza imposti che diventano, essi stessi, personalissime ed esiziali trappole.
Nelle già citate e preziose carte in ingresso della serie Una stanza tutta per sé vengono raffigurati volti femminili mediati dalla storia dell’arte, ai quali viene affidato il difficile compito di indagare gli scomodi ruoli imposti affidati, di norma e nel bel mezzo di un atteggiamento sclerotico, alla donna: in la Insofferenza per il ruolo.
Couperose distinta, la sgradita posizione occupata è messa in rilievo da uno sfogo dermatologico rappreso in autentiche cuciture che trafiggono il supporto, passando a viva voce il sentimento di disagio e di dolore per una veste non solo non voluta, ma persino disprezzata.
L’artista, in questi mesi cupi, senza luce, per uscire dalle cavità da lei stessa prodotte e replicate serialmente sulla tela con la serie Nobile piastrellatura, ha considerato l’unica via possibile il confronto, reso sostanziale da una veloce perlustrazione, con un sondaggio rivolto ai colleghi.
Se per molti, la prigionia coatta, ha rappresentato una possibilità unica di ritiro dal mondo, per Targher ha significato l’interruzione di un flusso benefico coll’ambiente circostante, in cui persino l’avvolgente giardino si è rivelato quasi inconsistente e in cui l’isolamento ha rivelato una realtà sopita o insperata: l’essere, comunque, una bestia sociale bisognosa del tempo dell’incontro e dello scambio.
La serie Nobile piastrellatura, così, è un tentativo chiaramente ossessivo di connotare ulteriormente il proprio spazio abitativo, come se nella ripetizione della sequenza seriale si potesse annidare anche la legittima pretesa di una rifondazione della vita intera. (Così il piccolo pezzo Opus spicatum, rivela l’esclusivo guardare per terra, del circumnavigare senza senso e sperduto nella chiusa e asfittica fucina di creazione e che porta a volgersi al passato, ai grandi costruttori, nel tentativo di approntare una efficace e persistente soluzione abitativa: che sappia anche coniugare il bello, il piacere, così da rendere tutto più sopportabile).
Dalle premesse di un procedere regolare, fatto accostando pazientemente un pezzo a quello precedente, scaturisce una iterazione senza via di fuga che, però e nell’esito, sortisce delle inaspettate aperture, che sono vedute sul mondo esterno prodotte dall’interno: a ben vedere, da un paesaggio intimo e dell’anima. Le finestre, pertanto, sono, sì, degli asfittici loculi, dove ognuno ha dovuto seppellire le proprie ambizioni e velleità riscoprendosi sempre più solo, ma, parimenti, pulsante, vivo e capace di ricreare mondi.
Quindi, perfino le sembianze del virus, se viste al microscopio, rivelano la bellezza della vita che gravita come in Oltre la cosa IV che chiude, nella leggerezza di uno sfondo marino, un ciclo iniziato l’anno precedente. Il virus è seducente al pari di un tentacolare polipo e galleggia in mondi acquatici, prendendo le sembianze della speranza, di una rinascita attraverso un feto primeggiante e sontuoso.
Qui, l’artista, nella facilità risolutiva di un soggetto icastico, quasi frontale e simmetrico, si sbizzarrisce con il repertorio non solo tecnico, ma anche stilistico che la contraddistingue: la luce, i bagliori liquidi delle acque, sono rilevati e sostenuti dal collage e anche dall’inserimento di stoffe preziose, lasciate libere, assicurate, ma non fissate alla tela.
Nella serie Ostensione della monade, invece, un Io estroflesso e auto contemplativo è prima, sì, minacciato dall’elemento basilare a più punte, ma, poi, ne viene, paradossalmente, liberato, per eccessiva contaminazione. Così, parimenti, succede anche nel pezzo Griglia distrutta, facente parte, ancora e a tutti gli effetti, della serie delle piastrellature, ma in cui uno sbandamento pittorico afferente ancora all’espressionismo astratto (matrice storica d’esordio dell’artista) e caratterizzato e strutturato come battaglia, come arena, richiama e indica uno scampolo di via di fuga.
Il tema dell’entità costituita, racchiusa, anche se magmatica e in rapporto, anche forzato, con l’esterno, sembra rimanere una immissione costante e data per acquisita negli ultimi lavori di Targher.
Le due tele verticali Vertigine, infatti, rappresentano anch’esse la potenza specchiante dell’isolamento coatto, dove ogni delirio sembra lecito. Il perimetro quadrato rappresentazione dell’Io stantio si riempie e viene trafitto, suo malgrado, dalle letture, da rimasugli di parole che, autonomamente, così, si ricompongono.
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