Un lupo mannaro americano a Londra

Cinema

Uomo/animale: incontri tra generi
Cinema

Stati Uniti, 1981
Titolo originale: An American Werewolf in London
Genere: Commedia
Durata: 97'
Regia: John Landis
Cast: David Naughton, Jenny Agutter, Griffin Dunne, John Woodvine

Copia proveniente dall'Istituto Cinematografico dell'Aquila "La Lanterna Magica"
Due studenti americani hanno un incontro ravvicinato con la licantropia. John Landis gioca con la paura, mescola le citazioni, si diverte con gli effetti speciali: un classico della commedia horror.

In vacanza nel Nord dell'Inghilterra, due ragazzi sono aggrediti nottetempo nella brughiera da una belva mostruosa. Risvegliatosi in un ospedale di Londra, dove fa amicizia con un'infermiera, uno dei ragazzi si ristabilisce fisicamente, turbato da una serie di incubi legati all'incidente. L'amico, nel corso di una di queste visioni, gli svela la verità e gli predice la trasformazione in lupo mannaro.

JOHN LANDIS
Autore di grandi successi come “Animal House” (1978), “The Blues Brothers” (1980), “Una poltrona per due” (1983), “Spie come noi” (1985), John Landis è il protagonista della commedia americana degli anni Ottanta, che ha saputo rinnovare mescolando demenzialità camp e ironia cinefila.

“La mia ossessione per la figura del lupo mannaro iniziò nel 1969 in Jugoslavia. Ero assistente alla produzione di «Kelly’s Heros» e seguivo la lavorazione del film. Stavo percorrendo una strada che attraversava per circa 600 miglia il Paese, quando dovemmo fermarci perché il traffico era bloccato. Era un funerale zingaro. C’erano un prete e dodici persone che stavano seppellendo un uomo esattamente al centro dell’incrocio. Era tutto coperto di rosari e di aglio, proprio come in un film Universal degli anni Quaranta. Era un maniaco sessuale abbastanza conosciuto tra gli zingari, e lo stavano seppellendo in mezzo al crocevia, perché così non sarebbe più potuto scappare. E così iniziai a pensare a queste credenze in termini un poco più seri di quanto avessi mai fatto.” (John Landis)

METAMORFOSI E LICANTROPIA
In Un lupo mannaro americano a Londra il ricorso ai cliché del cinema horror è occasionale (un esempio: il gelo che avvolge Jack e David quando, all’«Agnello macellato», indicano il simbolo magico ricorda il terrore della gente transilvana quando Jonathan Harker chiede di Dracula) e mai denunciato. Non solo il film non si rifà esplicitamente ad alcun suo predecessore, ma gli unici riferimenti cinematografici sono a contrario. Dopo la seconda visita di Jack, David chiede a Alex se abbia visto L’uomo lupo (The Wolf Man, 1941), “quello vecchio con Bela Lugosi, Lon Chaney Jr. e Claude Reins” e crede di ricordare che un lupo mannaro può essere ucciso solo da qualcuno che lo ama, una regola che il finale del film decisamente smentisce. Ancora: quando nella scena del cinema David chiede a Jack se per suicidarsi non sia necessaria la classica pallottola d’argento, questi lo deride come se si trattasse di una sciocca superstizione. La regola, in effetti, non ha radici nelle tradizioni popolari; al contrario, ha origine cinematografica perché nasce proprio con The Wolf Man (l’idea venne allo sceneggiatore Curt Siodmak ascoltando uno show radiofonico su Lone Ranger, l’eroe del west che carica le sue pistole con proiettili d’argento): rinnegarla significa dunque stabilire che il cinema è una bella cosa, ma che la realtà è un altro paio di maniche.
Un lupo mannaro americano a Londra deve parte della sua popolarità alla scena della trasformazione. Finora l’effetto si era ottenuto per mezzo di dissolvenze incrociate su una serie di primi piani dell’attore, ripreso in vari stadi di trucco, ma Landis sa bene che lo sforzo di affrontare l’horror in modo realistico richiede una mutazione fisicamente credibile, senza l’intervento di trucchi ottici: bando alle dissolvenze, tutto deve avvenire davanti all’obiettivo in modo da poter essere ripreso dal vero. Sulla pellicola si vede effettivamente il cranio cambiar forma e la carne rimodellarsi mentre gli arti si allungano e diventano zampe. Ripresa in piena luce in modo da cogliere ogni particolare, la scena ha un che di pornografico nel modo in cui registra senza mediazioni il manifestarsi delle metamorfosi nel corpo di David Naughton; ma è un rischio che Landis è pronto a scongiurare con l’arma dell’ironia: mentre l’obiettivo insiste sui dettagli, senza lasciar nulla all’immaginazione dello spettatore, una breve inquadratura ci mostra un sorridente pupazzo di Topolino che osserva impassibile l’orrenda trasformazione.
(Alberto Farina, John Landis, Milano, il Castoro, 1995)

Da almeno duemila anni il nostro immaginario è ossessionato dalla figura del licantropo (dal greco lykos, ‘lupo’, e anthropos, ‘uomo’), che in Italia venne presto definito «lupo mannaro» (dal latino lupus hominarius, ‘lupo simile all’uomo’). Di uomini-lupo ci parlavano le Metamorfosi di Ovidio e il Satyricon di Petronio. La superstizione popolare diffuse questa leggenda, inventando fantasiosi delitti operati dai lupi mannari, ma la scienza già nel IV secolo dopo Cristo era capace di vedere nella licantropia solo un comportamento malato, mettendola in relazione con quella che veniva definita la «melanconia».
Il licantropo è un mostro malato. E’ l’unico, nella teratologia moderna, che non è sempre mostro, ma solo periodicamente. Soltanto la luna piena lo trasforma, facendo riemergere la bestialità tanto temuta dall’homo sapiens. Poi, dopo questa mutazione mestruale, ritorna al suo aspetto umano: e soffre. Per questo il licantropo è il più triste dei mostri: uccide, ma non vorrebbe, si copre di peli e snuda le zanne, ma tenta di guarire. Non è mai responsabile di questa sua maledizione, al contrario del dottor Jekyll che sceglie deliberatamente di provare su di sé un siero capace di renderlo bestiale.
(Fabio Giovannini, Mostri. Protagonisti dell’immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Roma, Castelvecchi, 1999)