Uscire dall'oscurità
"Aurelio Nicolodi. Una luce nel buio dei giorni" è il titolo del libro scritto dai giornalisti Alberto Folgheraiter e Giorgio Lunelli per far conoscere la figura e l’opera del fondatore dell’Unione italiana ciechi e ipovedenti, edito da Curcu & Genovese.
Il 25 luglio 1915, durante la seconda battaglia dell’Isonzo, il volontario trentino Aurelio Nicolodi restò gravemente ferito al volto e perse la vista. Si laureò in seguito in Economia e commercio e, nell'ottobre del 1920, insieme ad altri reduci, fondò l'Unione Italiana Ciechi, divenendone il primo presidente. Convinto assertore della necessità di emancipazione dei non vedenti, Nicolodi riuscì a trasformare gli istituti per ciechi - all'epoca nient'altro che ospizi - in luoghi di educazione ed istruzione, affinché ogni persona possa essere accolta nella società con il dovuto rispetto.
Alberto Folgheraiter
Lunelli Giorgio
Aurelio Nicolodi
Una luce nel buio dei giorni
ed Curcu & Genovese, 2015
“Essere considerati uomini fra uomini, cittadini tra cittadini, con tutti i doveri e i diritti inerenti, era per un cieco, venticinque anni fa, semplice utopia. Inabilitato, in base al Codice del 1865, a tutelare i propri interessi, soggetto all’aleatorietà di un’educazione obbligatoria solo a parole, perché, in realtà, dipendente da protezioni, influenze, benefici e comunque limitata ai soli corsi elementari, il cieco era, di fatto, in balìa della carità pubblica, non solo per l’istruzione e l’assistenza, ma anche per il lavoro. Questo, irrisoriamente retribuito, si risolveva in una forma di sfruttamento, oramai così invalso da apparire logico agli stessi ciechi. Il materiale didattico scarso o nullo. Spesso un solo libro di testo doveva bastare a un’intera scolaresca. Gl’insegnanti improvvisati e scelti fra gli stessi ciechi anche quando la cecità del maestro era incompatibile. Poche e caotiche le biblioteche, frutto di copisti volontari e costituite di libri scorretti, scelti secondo il gusto e l’arbitrio del copiatore e non secondo la necessità dello studioso. Gl’Istituti, simili ad asili, accoglievano, purché ciechi, bambini, adulti, vecchi, malati, deficienti, in una mescolanza di sessi, di età, di mentalità, ch’era quanto di più deprimente si potesse immaginare. Ivi, molte energie che un ambiente adatto avrebbe potuto mettere in valore, perivano miseramente nell’annichilimento più assoluto. La musica, retaggio, se non unico, perlomeno comune ai ricoverati, quasi che il non vedere determinasse automaticamente un’inclinazione musicale. Impianti da lavoro nulli o quasi. I lavoratori che germinavano qua e là avevano una vita breve e atrofica, dominati dal loro stesso criterio costituzionale che era l’elemosina e non da una studiata valorizzazione delle effettive possibilità dei ciechi. Provvedimenti di carattere previdenziale neanche l’idea, il cieco essendo considerato un essere già fuori dalla vita, ombra che si trascinava di pari passo con la morte. Tali erano le condizioni dei ciechi un venticinquennio addietro”. Aurelio Nicolodi, 1945