Viaggio a Kandahar

Cinema

Iran, 2001
Durata: 90'
Genere: Drammatico
Regia: Mohsen Makhmalbaf
Cast: Sadou Teymouri, Niloufar Pazira, Hassan Tantai

Nafas, una giornalista fuggita dall'Afghanistan durante la guerra dei Talebani e rifugiata in Canada, riceve una lettera disperata da sua sorella minore che minaccia di suicidarsi nel giorno dell'ultima eclissi del millennio. Nafas decide di attraversare il confine irano-afgano per andare a Kanadahar in soccorso alla sorella.

di Vittorio Renzi

Un racconto epico: un viaggio strutturato a tappe, o meglio, episodi; gli incontri con diversi personaggi, i travestimenti (burqha e barbe finte), una missione da portare a termine. C’è, se vogliamo, anche il ricorso alla “pozione” – in senso proppiano – che è qui rappresentata dal piccolo registratore dove Nafas (la splendida Noloufar Pazira) racchiude attraverso la voce tutto il suo amore per la vita, al fine di salvare la sorella mutilata che non vuole più vivere. Inoltre, quello di Nafas è un vero e proprio nòstos, un ritorno alla terra che le ha dato i natali e dalla quale è fuggita emigrando in Canada e diventando giornalista. Di fatto, l’Afghanistan che si trova ad attraversare è una terra misteriosa e sconosciuta anche a lei: Nafas è una straniera nella sua stessa terra.
Di sicuro non stiamo assistendo al cinema spoglio ed essenziale di Kiarostami. Ci troviamo immersi in un mondo remoto e immobile, prigioniero di se stesso, senza tempo: è questo il significato delle due eclissi che scandiscono l’inizio e la fine del film; un mondo dove le donne, letteralmente invisibili, sono fantasmi colorati e gli uomini hanno il volto scuro, gli occhi semichiusi e la stessa voce cantilenante dei bambini istruiti nelle scuole talibane, che si dondolano freneticamente su un unico verso del Corano, di cui pochi tra loro (forse nessuno) conoscono il significato.
Eppure, in qualche modo, ci troviamo ancora – come in Kiarostami - in una dimensione meta-cinemematografica: l’idea del film è della stessa attrice, anche lei, come il suo personaggio, afghana emigrata in Canada, anche lei giornalista, che si è rivolta al regista Makhmalbaf in cerca di aiuto: una sua amica (non la sorella, come nel film, ma ha poca importanza) ha deciso di suicidarsi. Due anni dopo il regista la richiamerà proponendole di mettere in scena quel viaggio che la Pazira, giunta di fatto in Iran, non ha mai potuto ultimare.
Un cinema che reagisce, più che argomentare, che non si limita ad osservare e non disdegna le provocazioni. Nafas osserva e giudica la realtà; agisce, come in un film di Ken Loach, in nome dei suoi ideali: il diritto ad uno sguardo critico, la speranza, il fermo rifiuto della violenza (come quando respinge la pistola che il medico Hayat, in realtà un afroamericano, le tende perché possa proteggersi nel difficile viaggio)...

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