Virus e politica. La Cina e il Coronavirus

 

Incontri e convegni , Convegno

Intervengono

Massimo Pizzato, docente e ricercatore in Virologia presso il Dipartimento CIBIO (Dipartimento di Biologia Cellulare, Computazionale e Integrata) dell’Università di Trento

e Fernando Orlandi, presidente della Biblioteca Archivio del CSSEO.

Introduce e modera Enrico Franco

Ieri le agenzie di stampa  riferivano che la Cina per la seconda volta in un mese ha cambiato le metodiche con cui vengono confermati i casi di infezione dal nuovo coronavirus (NCOVID-19). La notizia, apparentemente rassicurante (in base a queste nuove linee guida , nella provincia dello Hubei giovedì sono stati registrati 349 nuovi casi confermati contro gli oltre 1700 del giorno prima) ha anche sollevato nuovi interrogativi sull’attendibilità dei dati epidemiologici ufficiali diffusi dalla Commissione nazionale per la salute cinese.

 

Fino ad oggi le valutazioni sulla diffusione del coronavirus si sono fondate sul fatto che la Cina fosse l’unico epicentro. Alcuni casi in Giappone potrebbero mettere in discussione questo assunto. E se il coronavirus si diffondesse in Africa, dove la maggior dei paesi non sono attrezzati a fronteggiare una epidemia di questo genere? 81mila africani attualmente studiano in Cina e un numero molte volte maggiore di cinesi, secondo stime non meno di 1.650.000, lavorano in Africa, dove sono attive 10mila imprese cinesi. Una situazione potenzialmente assai critica, su cui si appunta l’attenzione della comunità scientifica , come segnala anche un recentissimo articolo pubblicato da The Lancet . Poco più di 10 giorni fa in in tutta l’Africa c’erano appena due laboratori diagnostici capaci di fare il test del coronavirus; oggi siamo già a quaranta.

Secondo il Center for Global Development , nessuno tra gli stati del continente sarebbe pronto a gestire la diffusione del virus, sebbene quasi tutti si stiano attrezzando il più possibile per far fronte a un contagio ritenuto inevitabile, con costi sociali e finanziari al momento non quantificabili.

 Nel novembre del 2002 la Cina aveva conosciuto (epicentro la provincia meridionale del Guagdong) la SARS (Sindrome respiratoria acuta severa), anch’essa scatenata da un coronavirus (SARS-CoV), identificato dal medico italiano Carlo Urbani, poi deceduto a causa della stessa.

L’attuale epidemia di coronavirus è esplosa in un momento difficile per la dirigenza cinese, impegnata in una difficile guerra commerciale con gli Stati Uniti, colpita dalla peste suina, sotto critica da parte della comunità internazionale per gli abusi sulla popolazione musulmana del Xinjiang, menre la popolazione di Hong Kong si ribella alle imposizioni di Pechino volte a modificare lo statuto dell’ex protettorato britannico.

L’immediata reazione della dirigenza del Partito Comunista Cinese alla nuova epidemia non si è discostata da quella che ebbe nel 2002-2003 dinanzi alla SARS. I silenzi e l’occultamento hanno dominato fino a circa un mese fa, e proprio per queste modalità a più di un commentatore ha accostato l’epidemia a Chernobyl’ .

 Che il segreto di stato abbia prevalso sulla salute pubblica, la trasparenza e la verità è testimoniato dalle dichiarazioni di Zhou Xianwang , il sindaco di Wuhan, il quale ha ammesso di non avere diffuso tempestivamente le informazioni sul coronavirus non avendo ricevuto l’autorizzazione dei suoi superiori di Pechino, essendo le informazioni sulle epidemie “segreto di stato”…

Ancora all’inizio di gennaio la Commissione nazionale per la salute cinese (la stessa che oggi controlla la diffusione dei dati sull’epidemia) intimava all’Istituto di Virologia di Wuhan : “tutti i dati sperimentali dei test, i risultati e le conclusioni relative a questo virus non debbono essere pubblicati sue mezzi di comunicazione autonomi”, vale a dire i social media. E “non devono essere divulgati ai mezzi di informazione, compresi quelli ufficiali e le organizzazioni con cui collaborano”.

Il Partito Comunista Cinese non ha mancato di attuare le repressioni. Due settimane fa, ad esempio, è stato posto agli arresti domiciliari sotto sorveglianza Xu Zhangrun , attivista dei diritti umani e professore di legge a Qinghua Daxue, una delle più prestigiose università del paese. La sua colpa? Avere diffuso il 4 febbraio un testo dal titolo “Allerta virus: il popolo furioso non ha più paura”, una critica appassionata del potere comunista cinese.

Costi

ingresso libero 


organizzazione: Biblioteca del CSSEO