Vittorio Fiorio. Memorie della guerra mondiale

Convegno

Pagine del Garda

Vittorio Fiorio. Memorie della guerra mondiale
a cura di Gianluigi Fait - ed. Il Sommolago / MAG
presentazione a cura di G. Fait e M. Grazioli

Sabato 22 novembre, nell'ambito della Rassegna dell'editoria gardesana Pagine del Garda, sarà presentato al Casinò municipale di Arco alle ore 16 il volume Vittorio Fiorio. Memorie della guerra mondiale, a cura di Gianluigi Fait, ed. Il Sommolago / MAG.
Interverranno il curatore stesso e lo storico Mauro Grazioli.

Dalla prefazione di Mauro Grazioli al libro
Vittorio Fiorio e la guerra mondiale. Un diario memoria di notevole interesse non solo per l’Alto Garda, ma per un contesto più generale. Le testimonianze del medico rivano, ora riportate alla luce da Gianluigi Fait, riflettono infatti quantomeno le posizioni della società trentina alla vigilia e nei mesi del conflitto che cento anni fa ha sconvolto l’Europa. Fin dal primo momento il Fiorio si schiera a favore dell’intervento, riflettendo il sentimento nazionale di buona parte della borghesia locale ben prima di Sarajevo. Non manca comunque di riportare il malcontento di quanti si trovano su posizioni diverse, perché lontani dagli aneliti filoitaliani o semplicemente perché costretti a vestire la divisa militare per una causa che sentono lontana, impropria, foriera di lutti. Le annotazioni che vanno dall’estate del 1914 al maggio dell’anno successivo sono illuminanti e ben si prestano a delineare il clima di una città di confine che assiste al rapido declinare della belle époque. Lo sparo di Gavrilo Princip che risuona nella prima pagina chiude infatti un’epoca di progresso per far posto ai sinistri bagliori delle armi, innescando le polveri dei nazionalismi. «Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna», avevano scritto i futuristi pochi anni prima.
Per questo ambiguo patriottismo a morire erano ora i soldati spediti in Galizia a combattere contro un nemico di altri, per volere di altri. Il Fiorio così riprende lo sconcerto delle famiglie che si vedono rubare i mariti e i figli; riferisce le notizie di morte che provengono dal fronte orientale, ma il credo non muta. Fa specie pensare che in nome della causa italiana si potesse gioire delle sconfitte austriache, considerando che le disfatte dell’esercito imperiale significavano anche la morte di tanti trentini. La visione del medico però non è cinica. Egli guarda con umanità ai patimenti della sua gente, partecipa ai lutti della sua terra, ma l’ideale della redenzione soverchia ogni cosa e lo spinge a invocare l’intervento italiano a fianco dell’Intesa. «Alle dichiarazioni di Salandra i nostri animi restano abbattuti, depressi, perché non si vedrebbe l’ora che l’Italia entrasse in azione e dare il colpo di grazia a questa vecchia carcassa austriaca che ha già resistito per tanti secoli e fatto tanto male, colla sua politica reazionaria e gesuitica. Si vorrebbe vedere l’Austria scomparsa dalla carta geografica dell’Europa, e con essa quella degenerata casa d’Asburgo composta di gente falsa, viziosa e prepotente, che nel passato secolo non seppe che far impiccare dei galantuomini che non potevano e non volevano pensarla come Francesco Giuseppe». È solo l’inizio: la frase gli esce dalla penna nell’agosto del Quattordici, quando forse pensava che l’aquila imperiale potesse cadere nel breve orizzonte. Ma non sarà così, lo sappiamo: l’igiene del mondo richiede l’inutile strage.
Le annotazioni giornaliere del medico rivano accompagnano passo dopo passo la discesa nel buio del secolo breve. L’Alto Garda, Riva, Arco, la Valle di Ledro pagano il loro tributo, come altre regioni del resto.

Già prima delle radiose giornate di maggio la città benacense impoverisce, smorza le insegne degli alberghi, vede chiudersi le strade del lago, si spegne, si spoglia di vita. «I piroscafi fanno servizio per l’ultima volta; le famiglie dei marinai residenti a Riva partono, prese dal panico, lascian pure la città gli altri regnicoli; addio giornali! Sarà difficile procurarsene una volta cessati i vapori», leggiamo in un’altra annotazione del diario. A lasciare la città per lidi più sicuri sono anche le famiglie della piccola borghesia filoitaliana, suscitando il malcontento della maggioranza «fedelona», come la chiama il Fiorio, la quale assiste preoccupata all’arrivo dei militari, alla trasformazione del territorio, all’eclissarsi dell’economia e della socialità. A prendere il sopravvento sono le nuove epifanie marziali, sono i soldati, le armi, le fortificazioni, le visite di leva, i controlli di polizia sempre più ferrei. Vittorio Fiorio prende nota: si preoccupa per l’igiene, per la penuria di cibo, per il destino dei suoi ammalati. Avverte «il principio della tragedia», l’incertezza del futuro, ma non tradisce l’ideale che lo accomuna a quanti attraversano il confine per indossare la divisa italiana. Forse lo farebbe lui stesso se non dovesse occuparsi dell’ospedale, se non sentisse dentro di sé la missione di medico, che pure non lo esime dal tramare con discrezione nella cerchia degli amici fidati. Dà forse fastidio qualche sua posizione manichea, la distinzione spesso netta di chi sta da una parte e chi dall’altra, con giudizi a volte sprezzanti nei confronti di chi non trova vicino alla sua causa. Continua peraltro a macinare pagine dopo pagine, mescolando i fatti rilevanti della politica e delle armi con tanti particolari, con le storie della città e delle persone che frequenta; degli amici e di coloro che non reputa tali, della gente comune e delle autorità con le quali è tenuto a rapportarsi, per il suo lavoro e per vari interessi.
Il piano inclinato del neutralismo fra Quattordici e Quindici non lascia frenare gli eventi. Vittorio Fiorio ne conta le ore, con la speranza che l’Italia si desti, come di fatto avviene nel maggio del 1915. Sono giorni di acuta speranza quelli che precedono la dichiarazione di guerra, scanditi da note sempre più fitte. «Il governo italiano dichiara in nome del Re la guerra all’Austria (ci siamo finalmente! Lo spirito si risolleva completamente)», leggiamo alla data del 24 maggio. Poi di seguito registra l’esodo della popolazione costretta a lasciare le case per i villaggi di legno di Braunau, Mitterndorf, Oberhollabrun, per le fattorie della Boemia e della Moravia. Si preoccupa del latte per l’ospedale trasferito ad Arco, delle notizie che giungono dagli internati a Katzenau, della diaspora di parenti e conoscenti, del treno che compie la sua ultima corsa, delle prime distruzioni, del tuonare del cannone sempre più vicino.
La guerra ormai si tocca con mano, diventa quotidianità, un rosario di notizie che giungono dai fronti più caldi e si sommano all’incertezza giornaliera che il medico ci tramanda con la minuzia del suo calamo. Un almanacco emblematico del conflitto mondiale in un fronte secondario, in una terra privata della vita civile.
Sono poche le persone rimaste nell’Alto Garda, poche e precarie, come i giorni che stanno davanti. Vittorio Fiorio sarà costretto a lasciare i suoi malati alla metà di aprile del 1916, senza che la pagina ci dia particolari spiegazioni. Lo fa con dispiacere ma ancora convinto che il sacrificio sia utile alla causa; irritato per le ingiurie contro i prigionieri italiani che sente alla stazione di Trento. Non gli sembra possibile che qualcuno si trovi ancora su sponde diverse. «Che supplizio dover tacere! Non poter spaccare la testa a quella plebaglia vile e triviale!», egli scrive mentre parte dalla sua regione. Mentre la guerra continua.


organizzazione: Comune di Arco - Associazione Il Sommolago - Servizio Attività Culturali Intercomunale di Arco e Riva del Garda