Nel 1659 casa d'Austria riusciva a insediare uno dei propri membri al governo del principato vescovile di Trento: si trattava di Sigismondo Francesco, appartenente al ramo tirolese degli Asburgo, figlio di Claudia de' Medici e fratello di Ferdinando Carlo, conte del Tirolo. Probabilmente a causa della mancata osservanza dei princìpi stabiliti dal Concilio di Trento i quali vietavano l'accumulo delle cariche, oltre che delle tradizionali vertenze sostenute dal casato tirolese con la chiesa di Trento, papa Alessandro VI rifiutò di confermare il neoeletto, scelto dal capitolo tridentino ma già dotato di cariche ecclesiastiche, essendo vescovo di Augusta e di Gurk, inoltre senza nemmeno essere stato consacrato. Sigismondo Francesco d'Asburgo dunque rimase per Trento un amministratore, investito del titolo di principe e dei diritti temporali dal cugino, l'imperatore Leopoldo I, ma non un presule secondo lo spirito del Concilio tridentino. Regolarizzata successivamente la propria posizione dal punto di vista spirituale, volle però abbandonare il principato e lo stato religioso per assumere la guida della contea del Tirolo e garantire la discendenza che mancava al fratello Ferdinando Carlo. La morte anzitempo di quest'ultimo, nel 1662, accelerò tale decisione, ma tre anni dopo, mentre attendeva la promessa sposa a Innsbruck, cessò di vivere anche Sigismondo Francesco.
A lui è legata la stipulazione della cosiddetta Transazione del 1662, siglata prima di lasciare Trento e avente lo scopo di dirimere alcune annose divergenze tra il principato e la contea del Tirolo. Si trattava di contenziosi che riguardavano sia il governo spirituale della diocesi (per gli ambiti di questa che facevano parte della contea), che quello politico del principato, per le interferenze che il conte vantava in certe materie di governo nei confronti del vescovo tridentino. In realtà alcuni contrasti, come ad esempio quelli nell'ambito fiscale e militare e quello riguardante le competenze del capitano della città di Trento nominato dal conte del Tirolo, si riaprirono a breve termine e dovettero essere risolti di volta in volta tramite accordi fra le due parti.
Breve fu il governo del successore, il cardinale Ernesto Adalberto Harrach (1665 - 1667), il quale era al contempo arcivescovo di Praga. Impegnato nell'opera di ricattolicizzazione della Boemia dopo la guerra dei Trent'anni, egli fu inoltre raramente presente a Trento, viaggiando spesso tra i territori di casa d'Austria e Roma; morì proprio nel corso di un viaggio che lo riportava dalla corte papale a Vienna. Fu l'ultimo vescovo tridentino a non appartenere a casati nobiliari della regione.
Sigismondo Alfonso Thun, che era già vescovo di Bressanone, venne eletto a Trento nel 1668. Col capitolo brissinese egli ebbe scontri a causa del suo procedere deciso e autoritario, mentre cercò di salvaguardare l'autonomia del vescovato nei confronti della contea del Tirolo. Una certa opposizione egli incontrò anche a Trento da parte degli ambienti che pretendevano di condizionare il governo vescovile. Le fonti lo descrivono come un vescovo energico, teso a risollevare il principato dalla crisi economica in cui si dibatteva da decenni e impegnato anche sul versante spirituale, secondo lo spirito conciliare. Dopo Sigismondo Alfonso, morto nel 1677, saranno altri tre i Thun a salire alla cattedra vescovile tridentina. Originari della Val di Non dove possedevano castelli e numerosi diritti, i Thun furono uno dei casati più influenti dei territori asburgici; un ramo della famiglia estese il proprio potere fino in Boemia.
Con Francesco Alberti Poja (1677 - 1689) fece invece per la prima volta la propria comparsa alla guida del principato un potente casato cittadino, mentre anche i canonici che costituivano il capitolo ormai avevano per lo più provenienza solo regionale. La carriera ecclesiastica di Francesco Alberti Poja, giunto ormai anziano al soglio vescovile, si era sviluppata completamente in ambito locale. Anche di lui le fonti a nostra disposizione parlano come di un vescovo impegnato nel risanamento delle finanze del principato. Il suo governo fu altresì caratterizzato da considerevoli interventi architettonici, operati nei due più importanti monumenti cittadini: al castello del Buon Consiglio la giunta (che prese appunto il suo nome), la quale collegava il Magno Palazzo clesiano con il Castelvecchio, in duomo la Cappella del Crocefisso.
Il potere che avevano ormai assunto alcuni ceppi cittadini, i quali quanto a mezzi economici non erano inferiori, almeno nella piccola capitale del principato, alle famiglie dell'antica nobiltà trentino-tirolese (cui appartenevano ad esempio i Thun, i Lodron, gli Spaur, i Trapp), venne confermato dall'elezione nel 1689 di Giuseppe Vittorio Alberti d'Enno. Anche in questo caso un'amministrazione equilibrata ed economicamente accorta sembra aver caratterizzato questa figura vescovile. Non fu invece esente il suo governo dalle pressioni dell'imperatore Leopoldo I che, in quanto detentore anche del titolo di conte del Tirolo (dopo l'estinzione degli Asburgo tirolesi), pretendeva una maggiore adesione dei vescovati posti sotto la propria influenza soprattutto alle richieste in materia fiscale.
L'identità tra la figura dell'imperatore e quella del conte del Tirolo causò per i vescovi tridentini della seconda metà del Seicento dissensi anche riguardo al cerimoniale, in quanto Leopoldo I tentò di mutare il giuramento di fedeltà prestatogli da ogni vescovo neoeletto come imperatore, in giuramento di fedeltà come conte. Essendo quest'ultimo gerarchicamente inferiore al principe tridentino (anche se di fatto più potente), giurare a lui avrebbe significato la perdita di autonomia del principato e la sua completa sottomissione alla contea. Un'altra vertenza mai sopita in quegli anni fu rappresentata dal tentativo del conte-imperatore di amministrare il principato nel periodo di sede vacante, cioè dalla morte di un vescovo alla nomina del successore, diritto che nei principati ecclesiastici dell'impero romano germanico apparteneva ai rispettivi capitoli e che anche a Trento veniva rivendicato dai canonici. L'adesione alle pressanti richieste fiscali di Leopoldo, inoltrate ai vescovati per sostenere le spese militari, spesso risolse momentaneamente i motivi di contenzioso sopra accennati. Così fece ad esempio anche l'Alberti d'Enno, che contribuì alle finanze asburgiche con 10000 fiorini, mentre già il suo predecessore, Francesco Alberti Poja, aveva estinto inadempienze fiscali e versato all'imperatore 2000 fiorini per la guerra contro i Turchi.