Alimentazione e identità: Expo2015
Una riflessione per il territorio trentino. "Il caso dei ricettari famigliari" di Marta Villa.
Il cibo è sicuramente una delle possibilità concrete per incontrare e scoprire un territorio: è il suo specchio; in molti casi, infatti attraverso gli alimenti e la cucina, ossia il modo con il quale l’uomo trasforma quello che ha a disposizione, il territorio parla di se stesso, intendendo con questo termine sia il capitale economico si quello sociale e culturale. Possiamo allora chiederci se esista un cibo autentico. Tra tutte le varie definizioni che abbiamo a disposizione scelgo l’interpretazione che lo studioso David Grazian ha proposto nelle sue riflessioni: l’autenticità è una rappresentazione idealizzata, è un fatto sociale proprio, siffatta rappresentazione è racchiusa in simboli di autenticità che molto spesso sono frutti di stereotipi.
Prima di tutto dobbiamo ricordare che il cibo è sapere, il sapore diviene un sapere culturalmente trasmesso da generazione in generazione e si stratifica: alcuni cibi che pensiamo di origine tradizionalmente lontana nel tempo sono invece di scoperta recente, altri invece che sembrano assai moderni affondano le radici nella storia dell’umanità. Il cibo infatti inganna e si adatta, si addomestica, alla cultura che lo fa proprio e che lo presenta. Anche la cucina del Trentino attualmente è un interessante sovrapporsi di abitudini alimentari lontane nel tempo e nello spazio: i piatti che la tradizione ha fatto propri raccontano la storia poliedrica di questa terra, le situazioni politiche, le diverse dominazioni che si sono succedute.
Dalla cucina del Settecento, aperta alle importazioni e alle contaminazioni con il resto della penisola e con la stessa Europa (la Francia in particolare) si passa ad una cucina ottocentesca condizionata dalla chiusura delle frontiere con l’Italia: le conseguenze sono evidenti negli stessi ricettari; si passa dal consumo della pasta di Puglia, ad esempio, fatta con il pregiato grano duro meridionale, al grano centro europeo (ungherese prevalentemente) che teneva male la cottura perché più tenero. La popolazione non può più importare il mais dalla pianura e costretta a coltivarlo in loco, lo sostituisce al grano saraceno e ottiene un prodotto scarso qualitativamente che segnò, insieme alla povertà di mezzi, la diffusione della pellagra con le sue conseguenze nefaste (follia, denutrizione, morte).
I ricettari raccontano tutto questo e sono una fonte interessante per comprendere come le diverse famiglie dell’epoca seguissero o meno alcune tradizioni alimentari consolidate. In Vallagarina abbiamo diverse famiglie che possiedono ancora adesso i ricettari di queste epoche: tra le altre ricordiamo la famiglia Madernini – Marzani di Vallagarina, la famiglia Guerrieri Gonzaga di Villalagarina e Avio, la famiglia Bridi – De Probizer di Rovereto, la famiglia Fiumi di Rovereto (i cui ricettari sono ora patrimonio della Biblioteca Civica di Verona poiché i Fiumi si trasferirono a inizio Novecento a Roverchiara) e la famiglia Todeschi von Eschfeld.
Intrigante è narrare brevemente la storia di questa particolare famiglia[1] che regala uno spaccato vivo della storia della terra trentina e che era legata per vincolo parentale a molte altre famiglie nobili (i Meriggi, i Rigotti, i De Cosmi, i Pizzini von Thürberg, i De Cobelli, i Malfatti, i Tacchi di Montemaria e i Thurn und Taxis): i Todeschi discendono da un capostipite, Abraham Deutsch, ebreo askenazita proveniente da Praga, trasferitosi poi a Venezia e a Strigno nel 1700. Questi giunge successivamente a Rovereto dove, dopo la conversione e la ridenominazione in Ignazio Thedesco/hi, poi Todeschi, si sposa. Per aver aiutato Eugenio di Savoia nella sua impresa militare finanziandogli la strada che da lì sale verso Schio, i figli ottengono gratuitamente il titolo di prima nobiltà (1751), e successivamente, sempre a titolo gratuito, il titolo di baroni (1768) grazie a Giovanni Battista Todeschi (1733-1799) per la soluzione del problema del dazio consumo di Rovereto.
I ricettari conservati dalla famiglia risalgono alla seconda metà del 1800 e sono redatti dalla mano femminile delle baronesse, in particolare Sofia, e dalla governante Fräulein Luise Prechtel di Monaco di Baviera. Le ricette sono scritte in diverse lingue (francese, tedesco, italiano) infatti sia Sofia, sia Luise erano molto istruite: la storia di Sofia si intreccia con la storia di Hulda Berger Goldstein, anch’ella ebrea, madre di Luciano Todeschi, noto musicista e padre degli attuali eredi, Carlo e Giovanni Battista. È proprio Hulda ad insegnare le lingue a Sofia e al marito Enrico Bombieri, rifugiati in Svizzera durante la Prima Guerra Mondiale. Giovanni Todeschi, fratello di Sofia, conosce Hulda e si sposano civilmente in terra elevetica: quando la coppia giunge in Italia, essendoci il fascismo al potere, non viene riconosciuta perché sposata all’estero e Giovanni deve adottare il figlio, costretto a portare solo il cognome della madre. I ricettari portano l’influenza anche di Hulda, donna tenace e intelligente, che non riesce ad adattarsi alla vita trentina, vittima di assurdi pettegolezzi e malelingue, decide di tornare in Svizzera. I ricettari rimangono in casa a Rovereto e vengono completati dalla governante e successivamente anche dalla moglie di Luciano, Paola Defrancesco, nipote del Podestà Silvio Defrancesco: molte ricette presentano piatti noti della cucina italiana (ossibuchi, funghi, risotti, pasta frolla all’Artusi), altri sono di derivazione esotica (riso alla cinese, mezze africane – una specie di dolce), diverse sono trentine (molti Zelten).
Questi documenti storici possono aiutarci a comprendere le abitudini culturali delle famiglie trentine, in particolare quelle nobili o alto-borghesi cittadine, che possedevano i mezzi per permettersi di cucinare piatti anche con ingredienti di difficile reperibilità: la cucina riflette comunque anche le idee di chi la pratica e spesso in alcune case, se irredentiste, troviamo ricettari che altrove mancano e un mangiare all’italiana utilizzato per rimarcare delle appartenenze identitarie specifiche. Anche il cibo, dunque, è un mezzo ambiguo, nello stesso tempo può avvicinare o dividere, può mescolare o distinguere; accostarsi con rispetto e curiosità può essere una modalità utile per trarne, culturalmente parlando, i benefici maggiori e per scoprire più profondamente la terra in cui si abita o che si visita come turisti.
PhD in Alpine, Food and Identity Anthropology,collaboratrice della cattedra di Antropologia Culturale Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università di Trento, Presidente Club UNESCO di Trento
[1] Le notizie sono state raccolte durante diverse interviste con il barone Carlo Todeschi, le foto sono di sua gentilissima concessione.
15/12/2014