Donne e carcere
La difficile situazione delle carceri italiane e soprattutto della donna in carcere al centro le progetto 7+1=8 Le nostre prigioni
Le difficoltà che rendono impermeabile il carcere rispetto alla vita esterna: parte da qui Andrea de Bertolini, presidente dell’Ordine degli avvocati di Trento per introdurre Donne e Carcere, il convegno che l’8 marzo presso lo Spazio Archeologico di Piazza Cesare Battisti ha visto in dialogo Fabio Valcanover, Marta Costantino e Ugo Morelli.
L’iniziativa si colloca nell'ambito di 7+1=8 Le nostre prigioni, il progetto organizzato dallo stesso Ordine degli avvocati con il Comitato Pari Opportunità dell'Ordine degli Avvocati di Trento, in collaborazione con Boccanera Gallery.
“Il progetto muove dal presupposto che la privazione della libertà è collegata a dalle gabbie fisiche ma anche a quelle interiori, che possono talvolta essere persino più insidiose – esordisce de Bertolini -. Il tema, prestando particolare attenzione alla prospettiva di genere, viene affrontato con una visione poliedrica e polisemica, con l’obiettivo di evitare che il carcere sia luogo di oblio e di anestesia totale delle coscienze e promuovere una cultura comune della pena e dei trattamenti penitenziari. ‘Lì dentro’ - prosegue - c’è una parte della società, lo devono sapere tutti anche quelli che vengono chiamati liberi” - conclude.
Si inserisce poi Beatrice Tomasoni, presidente del Comitato Pari Opportunità, che porta l’accento sui “pregiudizi e gli squilibri tra i generi rispetto alla classe dei detenuti e delle detenute per sottolineare che l’8 marzo rappresenta un’opportunità per riflettere sullo stato dell’arte. Quest’anno, ad esempio, ricorre il centenario dalla prima legge che ha visto le donne esprimere il diritto di voto e il cinquantesimo dal ‘68, periodo foriero di positivi risultati per la donna in materia di diritto di famiglia – approfondisce -. In questo contesto va tenuta presente la situazione discriminatoria della donna in carcere, un dato di fatto che parte dai numeri: le donne rappresentano infatti il 4 per cento della popolazione carceraria. È necessario sensibilizzare su questo aspetto, laddove i diritti non sono degnamente tutelati” - conclude.
Fabio Valcanover si concentra poi sulla questione dell’affettività, ripercorrendo le fonti normative che la disciplinano. Puntualizza che “per quanto riguarda la salute nel carcere, la scelta affrontata da tale Comitato di Bioetica individua come elemento sostanziale l’affettività, un diritto che deve trovare riconoscimento e tutela anche nelle situazioni di privazione della libertà. Affettività è un termine con un contenuto che parla anche di sessualità come elemento fondamentale del più complesso diritto alla salute che non può essere negato nel carcere – precisa.
Il riferimento va poi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articoli 8 e 12), per la quale ‘ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata', e passa quindi in rassegna una serie di raccomandazioni del Consiglio d’Europa a proposito della modalità delle visite, nell’ottica di “sviluppare relazioni familiari il più possibile normali, che consentano anche di avere rapporti intimi con il proprio partner. La direzione è quella di garantire un diritto alla vita affettiva e sessuale, prevedendo luoghi appositi”. Completa il quadro con un richiamo al dispositivo costituzionale in materia di diritti inviolabili.
Tutto quanto sin qui esposto in materia di affettività trova però un limite con il problema della sicurezza e del “controllo a vista” stabilito dalla Corte Costituzionale. Un ambito dunque complesso, che necessita di una composizione dei diversi punti di vista, in direzione di quella che Valcanover definisce “una situazione di totale, ecumenica sofferenza”.
Nello specifico del femminile entra invece Marta Costantino, premettendo che a febbraio erano 2402 le detenute, corrispondenti al 4% della popolazione carceraria totale.
“Parliamo di numeri piccoli che tendono a essere dimenticati – osserva -. Sono solo cinque in Italia le carceri femminili, numeri che non permettono di capire che invece la donna in carcere è il paradigma, sia dal punto di vista delle detenute ma anche delle agenti di polizia e delle direttrici. Le donne detenute rispetto agli uomini sono più fragili: continua a sussistere una sorta di pregiudizio che vuole la donna debole, e la guardia tende a considerarla più come soggetto che ha sbagliato che da punire. Ci troviamo di fronte a un approccio diverso dell’istituzione, spesso accompagnato dal luogo comune che le donne sono emotive, così è anche più difficile dirigere il carcere” - nota ancora.
La complessità dell’istituzione carceraria riflette dunque maggiormente la complessità di essere donna. “Al centro si pone un vissuto emotivo più forte che dipende dall’immagine di soggetto debole che vi si collega, poi non ci sono risorse dedicate, si fanno attività se avanza spazio, tempo, risorse. Le donne detenute risentono inoltre di una debolezza legata a una rete esterna inesistente - puntualizza -. Tendenzialmente un uomo in carcere ha un struttura sociale, il novanta per cento della quale composta da donne che portano il carico. Per le donne quasi sempre, se tale rete esiste, è fatta ancora una volta da donne.
I rapporti sono più problematici anche con i servizi di aiuto, se le detenute sono madri la struttura viene spesso concepita come una complicazione che può ‘portare via i figli’. Le donne, inoltre sono tendenzialmente considerate l’ultimo gradino, esiste in qualche modo una forma di normalità per il carcere dell’uomo ma non per la donna.
A ciò si aggiunge un problema di ruoli: se sei cattiva non sei una buona madre, come se si potesse ricondurre il suo essere donna all’essere madre. È lei la responsabile della cura, tiene insieme i pezzi della famiglia, così se lei è in carcere tutto si disgrega” - conclude Costantino.
Un universo dunque complesso e sfaccettato sul quale è più che mai necessario riflettere e richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica per promuovere una riforma dell'ordinamento penitenziario.
19/03/2018